di Sergio Rizzo
Il fallimento clamoroso delle politiche del lavoro collegate al reddito di cittadinanza ha un risvolto ancora più doloroso per i giovani e le generazioni future. Di cui nessuno, nel Palazzo, ha voluto prendere coscienza. È la tenuta del nostro sistema pensionistico, che già non se la passa troppo bene, se perfino la presidente del Consiglio Giorgia Meloni avrebbe detto ai sindacati che si rischiano “pensioni future inesistenti”.

Lo scenario allarmante, sia pure descritto con i toni felpati tipici della magistratura contabile, è nella stessa relazione sui conti dell’Inps dalla quale MF-Milano Finanza, ha ricavato nei giorni scorsi quei numeri sconcertanti che non cessano di far discutere: su 3,7 milioni di percettori di reddito di cittadinanza soltanto 254, nel 2020, hanno avuto un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Per un totale di 536 persone nei primi due anni di applicazione della legge. Le conseguenze sono ovvie, in un sistema a ripartizione. Se le pensioni vengono pagate con i contributi previdenziali versati da chi lavora, meno persone lavorano e meno soldi ci sono per pagarle. Ma a pagina 8 di quella relazione della Corte dei Conti si racconta anche un altro fatto sorprendente. Com’è previsto dalle norme in vigore, la sostenibilità del nostro sistema pensionistico dev’essere sottoposta ogni tre anni a una verifica statistico-attuariale da parte dell’Inps. L’istituto ha un ufficio apposito che se ne deve occupare: il Coordinamento statistico attuariale. Ebbene, si dà il caso che l’ultima verifica sia stata effettuata nel 2017, quando alla presidenza dell’Inps c’era ancora Tito Boeri (poi rilevato nel 2019 da Pasquale Tridico) che aveva anche promosso l’invio ai contribuenti delle “buste arancioni” contenenti le stime delle loro future pensioni.

In base alle regole citate dalla Corte dei conti l’Inps avrebbe dovuto sfornare la successiva verifica statistico-attuariale nel 2020, anno della pandemia, ma la relazione di cui sopra afferma che non se n’è avuta ancora notizia. E fra un anno appena quel documento potrebbe essere già vecchio, considerando che sempre secondo le norme nel 2023 dovrebbe essere fatta una nuova verifica e che il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha affermato che nel prossimo triennio la spesa previdenziale aumenterà pure di 50 miliardi di euro per via dell’indicizzazione dell’assegno. Dettagli non trascurabili, perché in mancanza di quella analisi sfuggono elementi decisivi per valutare la sostenibilità o meno del nostro sistema pensionistico. “L’ultima verifica statistico-attuariale che, in base agli articoli 153 e 154 del regolamento di amministrazione e contabilità, compete con cadenza triennale al Coordinamento statistico attuariale, risale ormai al 2017; essa, pertanto”, è scritto nella relazione della Corte dei conti, “non comprende i mutamenti della legislazione di settore (solo nel 2019, Quota 100 e Rdc o, quanto al 2017 e 2018, le mancate riscossioni per effetto di misure di sanatoria), e non contempla gli effetti della pandemia, tutti aspetti che hanno determinato una ulteriore notevole divaricazione tra il dato reale e la previsione statistico attuariale”.

A chi domandava che fine avesse fatto la verifica fantasma è stato risposto che era stata inviata al ministero del Lavoro. L’unica certezza è che le stime contenute in quella verifica non avrebbero affatto promosso a pieni voti certe decisioni politiche come la quota 100 pretesa dalla Lega di Matteo Salvini e accettata dal Movimento 5 stelle come contropartita del Reddito di cittadinanza. Già oggi, senza avere contezza di quello che hanno provocato le misure introdotte dopo il 2017, i contributi versati da chi lavora non riescono a coprire che l’86 per cento della spesa pensionistica, se non si tiene conto della cosiddetta Gias (Gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali) a carico dell’Erario.

Di questo passo, e sempre senza conoscere l’impatto di quota 100, del Reddito di cittadinanza e di tutto il resto, nell’anno del signore 2046 il disavanzo pensionistico potrebbe aver raggiunto quasi 200 mila miliardi di euro. “Nel lungo periodo la spesa pensionistica lorda non è compensata dalle entrate accertate e lo spread tende ulteriormente ad aumentare in misura sempre più accentuata anche in relazione all’effettiva capacità di riscossione.

Nel 2046 la copertura prevista dalle entrate contributive sarà pari all’82 per cento al netto dell’intervento Gias, restando a carico della fiscalità generale il 31 per cento dell’intera spesa pensionistica”, dice il rapporto firmato dal magistrato Antonio Buccarelli. Chiaro, no? Abbastanza da far riflettere chi vorrebbe ora, nel governo Meloni, assestare un altro colpo al sistema pensionistico dopo aver promesso in campagna elettorale di allargare nuovamente le maglie della previdenza pubblica.

Forse però è troppo pretenderlo. Una classe politica responsabile avrebbe il dovere, ogni volta che si fanno promesse del genere, di dire agli elettori tutta la verità: spiegandogli che non è gratis, e che il conto, salatissimo, lo pagheranno i figli e i nipoti. Ma così il gioco, probabilmente, non funzionerebbe più tanto bene. (riproduzione riservata)
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