Il trattamento pubblico invece diventa più ricco
di Carlo Giuro
Il ritorno del pericolo inflattivo pone tra i profili da considerare anche quello legato alla protezione dei trattamenti previdenziali. Quali sono i meccanismi previsti? Partendo dal pilastro di base, il tema della perequazione, ovvero la rivalutazione di 22,8 milioni di assegni previdenziali pubblici in base all’inflazione, è uno di quelli che dovrebbero essere esaminati nel nuovo tavolo di concertazione in materia di pensioni tra sindacati e Governo che è in fase di avvio. Si ricorda infatti che a fine 2021 termina il periodo transitorio introdotto nel 2014 e poi prorogato al fine di limitare l’apprezzamento del valore degli assegni in base al caro vita.

Per cui, in assenza di revisioni, dal 1° gennaio 2022 si tornerà alla rivalutazione del cosiddetto metodo Prodi, che prevede un meccanismo simil Irpef con tre aliquote di rivalutazione (100%, 90%, 75%) a seconda dello scaglione della pensione, al posto del metodo Conte introdotto in via sperimentale per tre anni nel 2019 e articolato in sei fasce cui vengono applicate percentuali secche di rivalutazione dal 100% al 40% sull’intero valore della pensione. Dal 2022, senza interventi, torneranno gli scaglioni Prodi, molto più favorevoli per i pensionati (ma non per lo Stato), in quanto il meccanismo applica progressivamente la diminuzione dell’aliquota di rivalutazione per l’inflazione, mentre nel metodo per fasce la minor aliquota di rivalutazione viene applicata sull’intera pensione.

Se quindi per chi le percepisce si prospettano dal 2022 incrementi per effetto del ritorno dell’inflazione, dall’altra parte i lavoratori nella fase di accumulo avranno uno stop alla rivalutazione dei contributi a causa della recessione dello scorso anno. Questo perché nel sistema contributivo, oggi in vigore per tutti, il montante virtuale in maturazione viene rivalutato annualmente sulla base della media del pil del quinquennio precedente. Il Ministero del Lavoro ha recentemente reso noto, sulla base delle rilevazioni dell’Istat, che per via della recessione del 2020 il valore del tasso annuo di capitalizzazione da utilizzare per rivalutare i contributi dal 2022, risulta pari a -0,000215 e, pertanto, il coefficiente di rivalutazione è pari a 0,999785, quindi sotto l’unità. La specifica clausola di salvaguardia introdotta nel 2015 dall’allora governo Renzi volta a calmierare gli effetti del precedente avvenuto nel 2014 (in cui per la prima volta, il tasso è risultato negativo a causa della recessione degli anni precedenti) prevede però che, se il valore del tasso annuo è inferiore a zero, il coefficiente di rivalutazione è posto a uno, quindi senza svalutazione dei montanti, e negli anni successivi si provvederà al recupero. Anche questo è un profilo che verrà esaminato nel confronto tra Esecutivo e parti sociali.

Andando alla previdenza complementare, in questo caso la protezione in fase d’accumulo si realizza con l’investimento della posizione individuale nei mercati finanziari nell’ambito di un processo di pianificazione previdenziale che deve tenere conto della fase del ciclo di vita in cui l’aderente si colloca, considerando quindi la sua distanza dal pensionamento che determina l’orizzonte temporale di riferimento. Inoltre il rendimento dei fondi pensione aperti, chiusi e delle polizze individuali di previdenza (pip) per i lavoratori dipendenti si confronta con quello che è considerato una sorta di benchmark ombra, vale a dire la rivalutazione legale del trattamento di fine rapporto (tfr). I lavoratori possono infatti scegliere di aderire alla previdenza complementare versando il proprio tfr oppure di non iscriversi e lasciarlo dunque in azienda.

La normativa in materia di Trattamento di fine rapporto prevede che ogni anno lo stock accantonato presso il proprio datore di lavoro venga rivalutato con l’applicazione di un tasso che risulta dalla somma dell’1,5% fisso più il 75% dell’incremento dell’indice di inflazione Istat rispetto al mese di dicembre dell’anno precedente. L’aderente a una forma pensionistica tende quindi a valutare l’effetto finanziario di sostituzione comparando il rendimento prodotto dal proprio strumento previdenziale in cui è confluito il suo tfr rispetto a quanto avrebbe guadagnato mantenendolo in azienda (andrebbe però considerato che l’adesione al fondo pensione previsto contrattualmente consente anche di beneficiare del contributo del datore di lavoro cui altrimenti si rinuncerebbe). Secondo le ultime stime Covip, l’autorità di vigilanza dei fondi pensione presieduta da Mario Padula, dall’inizio del 2011 alla fine di settembre 2021, il rendimento medio annuo composto è stato pari al 3,7% per i fondi negoziali, al 3,8% per i fondi aperti, al 3,8% per le polizze individuali pensionistiche di ramo III e al 2,3% per le gestioni di ramo I; nello stesso periodo, la rivalutazione del tfr è risultata inferiore e pari all’1,9% annuo. Ma quest’anno proprio a causa dell’aumento dell’inflazione l’asticella del tfr si è alzata e la sua rivalutazione è salita nei primi nove mesi al +2,3%. Grazie comunque al buon andamento dei mercati finanziari i gestori previdenziali sono riusciti ancora a superare l’apprezzamento del tfr: da gennaio a settembre scorso i negoziali hanno reso il +3,1%, gli aperti il +4,1% e i pip di ramo III il +7,1%.

Andando alla fase del decumulo previdenziale va rimarcato come le rendite erogate da fondi pensione e pip sono rivalutabili (il montante previdenziale è investito come premio unico in una gestione separata di tipo assicurativa) con una salvaguardia sostanziale del potere d’acquisto. (riproduzione riservata)
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