Francesco Ninfole
Il mercato dei bond Esg ha vissuto un aumento esponenziale delle emissioni negli ultimi anni. A livello globale l’ammontare in circolazione di titoli di questo tipo (i cui proventi sono vincolati al finanziamento di progetti che rispettano criteri ambientali, di governance e sociali) è passato da 193 a 1.850 miliardi di euro tra l’inizio del 2015 e il primo trimestre del 2021. Nello stesso periodo gli emittenti sono passati da 204 a più di 1.600 tra imprese, banche, governi e altre società finanziarie.

Il primo Paese per valore delle emissioni è la Cina (328 miliardi), dove non sempre i requisiti per ottenere il bollino Esg sono stringenti. Ma gli strumenti sono diffusi anche in Europa, in particolare in Francia (206 miliardi) e Germania (202), dove un ruolo centrale è svolto dallo Stato. In questo contesto i valori sono in forte crescita anche in Italia, con un ammontare in circolazione arrivato a 34 miliardi, grazie soprattutto agli 8,5 miliardi del primo Btp Green di marzo. Gli emittenti domestici sono stati finora una trentina.

Questi dati sono stati elaborati da due economisti della Banca d’Italia, Danilo Liberati e Giuseppe Marinelli, in un paper pubblicato da Via Nazionale, nel quale sono stati analizzati 15.500 bond Esg, quotati su specifici segmenti delle borse mondiali, integrati con altre informazioni disponibili. Soltanto alla borsa di Lussemburgo sono scambiati 961 titoli per un valore di 475 miliardi, ma anche nei listini di Italia e Germania i valori sono alti, con un volume di 260 miliardi ciascuno.

La ricerca Bankitalia ha osservato che l’offerta di obbligazioni Esg in Italia ha raggiunto il 3% dei titoli emessi dal settore privato, un valore in linea con la media degli altri Paesi. Gli investitori residenti nel Paese hanno aumentato l’esposizione nell’ultimo biennio a 37,4 miliardi, un valore pari all’1,9% del portafoglio obbligazionario a marzo 2021. La quota è più elevata per i fondi di investimento (4,4%) e più bassa per le assicurazioni e le banche (entrambe al 2%). Gran parte dei titoli Esg in portafoglio è denominata in euro, scambiata su mercati regolamentati (90%) ed è emessa da soggetti non residenti in Italia (più di due terzi). Quest’ultima caratteristica dice che parte del risparmio italiano finisce in progetti verdi esteri, anche per i limiti dell’offerta: c’è perciò spazio per un’ulteriore forte crescita di volumi ed emittenti nazionali. Peraltro i bond Esg hanno per l’emittente un ritorno reputazionale, in quanto dimostrano un interesse per le tematiche ambientali, e anche economico, considerando che i tassi sono più bassi rispetto a titoli di pari durata e rischio (si tratta del cosiddetto greenium, il premio negativo sui bond verdi, che però non ha scoraggiato finora l’entusiasmo degli investitori, come ha mostrato proprio il Btp green).

In Italia a marzo il settore assicurativo e quello bancario detenevano a marzo la porzione maggiore dei titoli Esg (rispettivamente 37 e 35%), data la maggiore esposizione generale al mercato obbligazionario. Altri settori con quote rilevanti erano quelli dei fondi di investimento (15%) e in minor misura famiglie e fondi pensione (5%). Gli economisti di Bankitalia hanno però ricordato che due terzi delle quote dei fondi di investimento sono detenuti dalle famiglie, dunque i titoli Esg totali di queste ultime salgono per effetto della detenzione indiretta.

I bond Esg hanno l’obiettivo di colmare il cosiddetto green finance gap, ossia la mancanza di denaro per il finanziamento di investimenti verdi, necessari per raggiungere gli obiettivi climatici. Tuttavia, osserva l’analisi, la mancanza di un registro ufficiale e la presenza di differenti linee guida e certificazioni a livello internazionale possono creare incentivi per il greenwashing, ovvero l’utilizzo di strategie comunicative degli emittenti per migliorare la reputazione ambientale senza il supporto dei dati.

Sul tema è tornato anche il governatore di Bankitalia Ignazio Visco: «Migliori informazioni sono essenziali anche per prevenire il rischio di greenwashing». Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, entro il 2030 gli investimenti in tecnologie pulite dovranno triplicare a livello globale, raggiungendo i 4.000 miliardi di dollari. Per mobilitare una tale quantità di risorse, secondo Visco, «occorre il pieno coinvolgimento del sistema finanziario, oggi frenato dalla scarsa qualità delle informazioni sui rischi legati al clima». Questo problema è «in parte originato anche dalla mancanza di una definizione generalmente accettata del rischio di sostenibilità». Per Visco perciò «migliorare la valutazione di rischi finanziari legati al clima richiede di colmare le lacune nei dati», ampliandone la diffusione da parte delle imprese, in particolare le più piccole, che «spesso operano in settori meno inquinanti» e «potrebbero pertanto perdere l’opportunità di raccogliere capitali a costi inferiori». (riproduzione riservata)
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