Anna Messia
È stato il pioniere della bancassicurazione in Italia, Cesare Brugola. Classe 1942, il manager negli anni 90′ decise di replicare nella penisola un modello distributivo che negli Stati Uniti era già un successo e in Europa stava muovendo i primi passi in Francia. Dopo aver lavorato per Aig, il colosso assicurativo Usa che gli aveva permesso di conoscere la realtà americana, Brugola fu chiamato dagli inglesi di Commercial Union (poi Aviva) e con loro siglò in Italia sette accordi bancassicurativi, sia danni sia vita. Compreso quello con l’allora Credito Italiano di Lucio Rondelli e Carlo Marengo, oggi Unicredit. Un mercato, quello della bancassicurazione, che a trent’anni di distanza sembra destinato a vivere una nuova primavera. Banco Bpm, una volta scaduti gli accordi con Covea e Cattolica nel 2023, potrebbe decidere di creare una propria fabbrica prodotto, sul modello di Intesa Sanpaolo. Del resto l’istituto guidato da Carlo Messina, in pochi anni, ha raggiunto la prima posizione nel mercato Vita e guadagna spazi nel Danni. C’è poi la partita Mps, da sistemare, che potrebbe aprire a una nuova competizione per le polizze allo sportello, proprio mentre da Bruxelles arrivano novità regolamentari che favoriscono la bancassurance. «I margini di sviluppo del comparto sono ancora molto ampi», dice Brugola a MF-Milano Finanza. «La banca ha già il cliente in casa. Spingere sulle polizze allo sportello consente di aumentare i margini e di gestire gli esuberi di personale in filiale. È una relazione vincente per tutti».

Domanda. Quali sono oggi le nuove occasioni rispetto a 30 anni fa?

Risposta. Il mercato continua a essere redditizio, oggi più che mai. Le banche sono però alle prese con tassi bassi e preoccupanti non performing loan. Di conseguenza, la componente assicurativa si rivela un’importante fonte di ricavi. Sono stato il primo a portare le polizze in banca e fui anche il primo a sottoscriverne una. Una mista che ho ancora in portafoglio. Portammo in Italia le unit linked, replicando quanto già avveniva nel Regno Unito. Prodotti che davano alla banca un doppio guadagno, sia dalla polizza sia dai fondi sottostanti. Coperture che ancora oggi dominano il mercato perché non c’è molta innovazione di prodotto. Il vero cambiamento fu sul fronte regolamentare. Convincemmo l’autorità di controllo che si trattava di polizze innovative anche per i clienti, e così è stato.

D. Quali erano i dubbi dell’autorità?

R. Si trattata di qualcosa di nuovo che andava compreso, come successivamente è stato per l’accesso dei fondi di private equity al settore. Allora Bankitalia non consentiva alle banche di vendere direttamente polizze allo sportello ma obbligava gli istituti a dare un mandato a un broker. Erano gli stessi anni in cui le compagnie straniere erano obbligate a riassicurarsi con l’Ina per un 30% dei premi incassati. Di fatto un mercato bloccato che poi si è aperto. Con le joint venture bancassicurative c’è stata la rivoluzione, con la possibilità di offrire un servizio integrato a vantaggio di tutti, a partire dai clienti. Gli agenti devono suonare i campanelli, la banca ha già il cliente in filiale. C’è un rapporto di fiducia e possono offrire prodotti semplici e trasparenti, ancora di più dopo la Mifid2, mentre le polizze assicurative più complicate resteranno di esclusiva competenza delle reti agenziali.

D. Incentivi alla crescita della bancassurance arrivano anche dal regolatore europeo. Le ultime proposte varate da Bruxelles sul Basilea 3 prevedono un vantaggio patrimoniale. Bisogna aspettarsi una nuova crescita?

R. Di certo si tratta di un vantaggio ma il mercato è già destinato a svilupparsi per i fattori che citavo prima. Bassi tassi, necessità di fare margini e occasioni di creare sinergie, facondo leva sui clienti che la banca ha già in casa. Ora la nuova frontiera è il ramo Danni.

D. Quale modello preferire? Una joint venture assicurativa, come quelle che aveva adattato ai tempi Commercial Union, o una compagnia controllata al 100% dalla banca, come nel caso di Intesa Sanpaolo?

R. Entrambi hanno dimostrato di dare soddisfazione. Quando incontravo i direttori di banca chiedevo loro quali fossero le commissioni che avrebbero voluto incassare e costruivo prodotti su misura. Nel caso di una fabbrica interna c’è un doppio vantaggio perché tutti i margini di distribuzione delle polizze restano in casa. Non a caso Banco Bpm starebbe ragionando sull’ipotesi di creare una propria compagnia, e l’altro effetto positivo è riconvertire i dipendenti che altrimenti rischierebbe di essere in esubero, con una remunerazione che premi la produttività.

D. La prima assicurazione italiana, Generali, ha però scelto di operare in Italia di fatto esclusivamente con gli agenti, senza accordi bancari, anche se non mancano le voci che li vorrebbero chiamati in causa dal Tesoro per una ricapitalizzazione di Mps. Potrebbe essere un’occasione per loro?

R. Negli anni del boom della bancassicurazione le Generali erano impegnate con la maxi operazione Ina Assitalia. In questi anni hanno dimostrato di sapere creare un gruppo che ha funzionato bene anche senza bancassicurazione. Potrebbero essere chiamate per Mps per un’operazione di sistema, perché sono una grande compagnia internazionale, ma per loro sarebbe di certo più interessante guardare ad altri mercati a più ampio tasso di crescita, a partire dal sudest asiatico, dalla Corea alla Malesia.

D. Commercial Union, poi diventata Aviva, è intanto uscita dall’Italia vendendo il Vita alle banche partner e a Cnp e il Danni ad Allianz…

R. Personalmente sono un po’ rammaricato che Aviva abbia lasciato l’Italia ma l’operazione si spiega in un riassetto più ampio deciso dal gruppo dopo Brexit. Hanno scelto di vendere tutte le attività europee e mondiali, continuando ad operare solo in Inghilterra, Canada e Irlanda ma anche questa è stata la dimostrazione della validità del modello della bancassurance. In Italia hanno incassato 1,3 miliardi, con una ricca plusvalenza, e una buona fetta è arrivata proprio dalle banche che hanno riacquistato le loro quote delle joint venture, mentre a livello mondiale hanno restituito agli azionisti ben 4,5 miliardi di sterline. (riproduzione riservata)
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