di Luca Gualtieri

Mediobanca continuerà a presidiare le Generali anche nell’arco del prossimo piano industriale 2019-2023, conservando in portafoglio il suo strategico 13%. Sarà questa l’indicazione che oggi il ceo Alberto Nagel fornirà agli investitori, precisando che la quota potrebbe essere parzialmente o interamente smontata solo nel caso di operazioni straordinarie. Tanto più che la recente proroga del Danish Compromise (il principio contabile che allevia l’assorbimento di patrimonio) consentirà a Mediobanca di non dedurre la partecipazione dal capitale fino al dicembre del 2024. Una scelta di continuità insomma giustificata dall’eccellente rendimento della quota (15% sul capitale allocato); ma anche una conferma di strategia che cade in un periodo in cui l’italianità di Generali è tornato tema di attualità non solo per la comunità finanziaria ma anche per le istituzioni. Il blitz che ha portato Leonardo Del Vecchio prima al 7,5% e poi al 9,9% di Mediobanca (percentuale quest’ultima certificata ieri da Consob dopo gli acquisti da Unicredit) preannuncia infatti un profondo rimescolamento degli assetti di controllo nelle due realtà e ha suggerito il possibile intervento di gruppi esteri. Vero è che per Piazzetta Cuccia l’intera strategia al 2023 si muoverà nel solco della continuità. Come negli ultimi due piani industriali la banca dovrebbe infatti confermare la diversificazione della base ricavi con una forte attenzione per il wealth management. Già oggi del resto il 60% di margine di intermediazione, impieghi e raccolta è originato da wealth management e credito al consumo; negli ultimi tre anni la forza di vendita è triplicata a 900 unità, le filiali del consumer
banking sono cresciute del 20% e 200, mentre i banker sono saliti del 30% a 140 unità. Se insomma, pur senza trascurare la storica presenza nel corporate e nell’investment banking, Mediobanca intende crescere nei nuovi settori, non è escluso che questa crescita possa avvenire attraverso acquisizioni.
Ed è proprio un’operazione straordinaria la possibilità che Nagel si lascerà aperta per smontare la partecipazione del Leone. Molti dossier passano sulla scrivania del ceo e gli investitori internazionali non mancano di dare suggerimenti. Un esempio? Un merger con Mediolanum, storico azionista di Piazzetta Cuccia (oggi al 3,3%), attivo in alcuni dei business su cui Nagel sta puntando. (riproduzione riservata)

L’obiettivo di Del Vecchio su Piazzetta Cuccia? Condivisibile, ma…
di Angelo De Mattia
Oggi conosceremo il nuovo piano industriale di Mediobanca. Intanto sembrano prendere consistenza le voci secondo cui la Delfin di Leonardo Del Vecchio avrebbe portato la partecipazione nell’istituto al 10%, nella prospettiva di salire ulteriormente, previa autorizzazione della Vigilanza unica. Da più parti si osserva, però, che l’esame per la concessione di questo benestare richiederebbe mesi. Tuttavia non si capisce come potrebbe mai giustificarsi una tale lunghezza, che sarebbe paradossalmente osservata proprio da chi sollecita continuamente le banche a una maggiore efficienza e a una più intensa competitività, per le quali è centrale il fattore tempo. Comunque la vicenda dell’uscita di Unicredit da Mediobanca e dell’iniziativa di Del Vecchio riporta al centro dell’interesse il ruolo, la storia e le prospettive dell’istituto di Piazzetta Cuccia, un tempo centrale nella mappa dei poteri economici e finanziari. Per diversi decenni la banca fu l’arbitro e il curatore del gracile capitalismo italiano. Dominava, comunque, l’epidemico conflitto di interesse. Mediobanca era una sorta di pronto soccorso per delicate operazioni di ortopedia finanziaria, che si concludevano con la prescrizione delle stampelle da utilizzare senza limiti di tempo. In sostanza, Mediobanca è stato il medico che ha salvato molti pezzi del flebile capitalismo italiano, ma nel contempo ha fatto sì che restassero in vita e non si ristrutturassero organismi che non avrebbero potuto esistere autonomamente. Le innovazioni nelle normative – a partire dal Testo Unico Bancario del 1993 e dalle Direttive comunitarie – e nelle politiche hanno ridimensionato, fino ad annullarla, la posizione
di favore di Mediobanca, cosa che si è poi congiunta con la scomparsa del demiurgo Cuccia. Inoltre è completamente modificato il contesto economico e finanziario nazionale e internazionale con cui fare i conti. Il riorientamento in parte sopravvenuto verso credito al dettaglio e prestiti al consumo ha costituito una svolta storica per l’istituto, tradizionalmente abituato a trattare con meno di duecento tra grandi e medie imprese. Il recente superamento del patto di sindacato tra i principali azionisti e l’introduzione di un semplice patto di consultazione hanno rappresentato un ulteriore segnale di svolta. Non poteva comunque accadere che l’assetto azionario di vertice restasse stabilmente un «hortus conclusus». Quale che siano state le immediate motivazioni che hanno spinto Leonardo Del Vecchio ad acquisire una quota azionaria nella banca, doveva ritenersi abbastanza probabile che l’assetto proprietario non rimanesse a lungo senza variazioni. Ciò comunque è un bene, a patto che ogni mossa di nuovi azionisti si sviluppi tutelando la stabilità aziendale nonché la trasparenza, rispondendo adeguatamente ai requisiti dei vertici, alla funzionalità della governance, alla esigenza di un’adeguata dotazione finanziaria e di una credibile visione prospettica. È difficile tuttavia condividere l’ipotesi di un approdo verso la public company. È invece fondamentale che sia chiaro il nucleo collettivo o no che compone la maggioranza. L’avanzata di Del Vecchio non credo proprio che miri all’affermazione di un azionariato diffuso. Ipotizzerebbe, secondo alcuni, un vertice di azionisti all’insegna dell’italianità, cosa che si dovrebbe trasferire anche sulle Generali. L’intento è condivisibile, tuttavia, poiché si rammentano oggi indirizzi della Banca d’Italia dell’era Fazio paradossalmente proprio da chi all’epoca li contrastava, vale la pena di ricordare che l’allora governatore non impiegò mai il termine «italianità» e che pensava a un ruolo prioritario di soggetti nazionali a parità di condizioni con soggetti esteri e non certo come conseguenza di una specie di benevola donazione che i poteri pubblici dovessero elargire a un azionariato nostrano che fosse «dormiente» o restio a sostenere aumenti di capitale da molti ritenuti necessari. Quando da Palazzo Koch fu difesa l’autonomia di Generali, in presenza di un attacco dal versante francese, ciò fu fatto con una discesa in campo innanzitutto di alcuni tra i principali azionisti di Mediobanca e del Leone. Non va dimenticato, poi, che la Banca d’Italia deteneva all’epoca una partecipazione nelle Generali di oltre il 4%. L’Istituto di Via Nazionale non si sottrasse a una severa valutazione in sede di votazione sul bilancio del Leone quando le scelte promosse dal primo azionista, appunto Mediobanca, per la governance della multinazionale assicurativa risultarono completamente inaccettabili. Tutto ciò è un memorandum per quel che potrà avvenire d’ora innanzi, una volta che, con la decisione di Unicredit, si è definitivamente chiusa una fase durata per lunghissima tempo. Ora «non si è più e non si è ancora». Di qui, a proposito delle iniziative di Del Vecchio, la necessità di una forte trasparenza. (riproduzione riservata)

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