Se qualcuno avesse avuto dei dubbi su chi comanda davvero in Cattolica assicurazioni, il repentino defenestramento di Alberto Minali, dal primo giugno 2017 amministratore delegato del gruppo, ha fatto chiarezza. Cattolica è nelle solide mani del suo presidente, Paolo Bedoni, che interpreta un ampio mandato ricevuto dall’assemblea dei soci di questa cooperativa quotata in Borsa. Al di là della contraddizione evidente di una società mutualistica quotata, che per di più nel suo statuto chiede ai soci di professare la religione cattolica, trattandoli ora da soci e ora da azionisti, il punto centrale della vicenda che ha azzerato le deleghe di Minali è questo. L’uomo venuto dal mercato, il veronese richiamato a Verona dopo aver scalato le vette delle Assicurazioni Generali ed essere arrivato a un passo dalla nomina ad amministratore delegato, si è rivelato essere un corpo estraneo alle logiche che dominano nel profondo la compagnia.
Distanze
Già in una intervista a questo giornale, che Minali diede nel novembre 2017, la distanza fra le parti si percepiva ampia. Ma la lontananza poteva essere comprensibile a sei mesi dall’incarico. Invece, nel corso di questi due anni, lo spazio che divideva management e proprietà si è andato via via ampliando, fino alla rottura.
È stata una questione di governance e di rapporti personali, non certo di risultati. Con Minali, infatti, Cattolica ha registrato il miglior bilancio degli ultimi dieci anni e i risultati dei primi nove mesi del 2019 testimoniano l’efficacia del lavoro svolto: raccolta complessiva a 5 miliardi di euro (+16,5 per cento), con una netta accelerazione del ramo Vita (+23,4 per cento) e utile netto in crescita del 15,8 per cento a 84 milioni. Risultati eccellenti, che però non sono bastati.
Per inquadrare meglio il terreno su cui si è consumato lo scontro è necessario dunque guardarsi attorno. Verona è città bellissima e ricca, che un tempo cullò l’idea di far concorrenza a Milano come polo della finanza e che deve il suo benessere alla terra. Basta attraversare la provincia correndo sulla A4 per comprendere come la coltivazione della frutta e le vigne abbiano saputo modellare un sistema economico. Alcuni dei migliori vini italiani, esportati in tutto il mondo, nascono qui. E qui l’agricoltore ha smesso da tempo di essere il contadino sciocco delle barzellette, guarda ai mercati, costruisce sistemi economici e di potere, capaci di tutelare la sua attività. Uno di questi sistemi è Coldiretti che, «con un milione e mezzo di associati è la principale organizzazione degli imprenditori agricoli a livello nazionale ed europeo». Paolo Bedoni ha guidato la Coldiretti di Verona dal 1991 al 2007 ed è stato presidente nazionale dal 1997 al 2006, quando diventò presidente di Cattolica assicurazioni, tredici anni fa.
Un apprendista rispetto ad altri presidenti delle Verona dell’economia. Carlo Fratta Pasini, lui pure con solide radici che affondano nella terra essendo stato tra il 1981 e l’85 presidente nazionale dei giovani agricoltori di Confagricoltura, è da vent’anni presidente di Banco Bpm, che all’epoca si chiamava Banca Popolare di Verona ed era una cooperativa, proprio come Cattolica. Addirittura, l’entrata nel consiglio di PopVerona risale per Fratta Pasini al 1995. Non si può a questo punto dimenticare Paolo Biasi, per ventidue anni e fino al 2016 presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Verona, che guidò dal primo giorno, esercitando un potere concreto sulle quotidiane vicende dell’allora Unicredito prima guidato da Alessandro Profumo e poi da Federico Ghizzoni. Biasi è stato per anni un vero ago della bilancia nella finanza nazionale, anche se per rincorrere il suo sogno di potere ha reso esangui le casse della Fondazione partecipando a tutti gli aumenti di capitale che negli anni si sono resi necessari, perdendo di vista la mission del suo ente e la direzione fissata dalla legge istitutrice delle fondazioni di origine bancaria, ovvero uscire al più presto dal capitale delle banche originarie. Dettato ignorato da Biasi.
Sbandate
Non è stata questa l’unica sbandata. Non va infatti dimenticata l’inchiesta della procura di Venezia che, nel 2016, portò all’arresto di due dirigenti della compagnia accusati di corruzione, uno segretario del presidente e l’altro direttore amministrativo. Bedoni, dal canto suo, è stato consigliere di amministrazione della Banca Popolare di Vicenza, all’epoca guidata da Gianni Zonin, dal 2007 al 2012. Con Zonin, altro personaggio che deve le sue fortune alla coltivazione della terra, Bedoni firmò anche uno scambio azionario che, con il crac della Popolare di Vicenza, altra società con forma cooperativa, costò a Cattolica una pesante e indimenticata perdita a bilancio. Un’operazione che successivamente aprì, siamo nel 2017, all’entrata nel capitale di Cattolica da parte degli americani di Berkshire Hathaway, il braccio operativo di Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi al mondo. Un capitalista. L’epilogo dunque non poteva essere diverso. La spinta all’apertura e al cambiamento ha trovato resistenze ideologiche e personali. La poltrona di presidente ha garantito a Bedoni un appannaggio di 1.128.392 euro nel 2018, sui livelli di Jean Pierre Mustier, l’amministratore delegato di Unicredit, oltre a una serie di privilegi contro cui sembra si sia scagliato Minali. Che, dal canto suo, tornato a Verona con l’idea di rifarsi, forte di conoscere la finanza e i suoi numeri come pochi altri, ha dovuto incassare una seconda sconfitta professionale e ora, che ha deciso di rimanere senza deleghe nel consiglio, ammanta il tutto con un sapore che ricorda la giungla giapponese.

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