Tribunale di Milano sulla sottrazione di curriculum a un’azienda di executive search
Per autore e impresa interessata è concorrenza sleale
di Federico Unnia

La sottrazione di curriculum vitae di profili professionali dalla banca dati un’azienda che svolga attività di executive search e il trasferimento ad altri professionisti di una società concorrente configura una ipotesi di concorrenza sleale della quale rispondono non solo gli autori materiali del fatto ma anche l’impresa cui questi attengano.
È quanto ha stabilito il Tribunale di Milano, sezione Imprese con la sentenza n. 8246/2019 del 23 maggio scorso (pres. Marangoni, rel. Macchi)
Il caso, che ha visto contrapposte due importanti società di executive search e due dipendenti passati da una (la ricorrente) ad altra (convenuta), riguarda una condotta, spesso temuta in occasione di passaggio di professionisti tra imprese concorrenti, ritenuta contraria all’art. 99, comma 1 Cpi e 2049 cc.
Il caso riguardava il passaggio di alcuni professionisti nel corso del tempo dalla ricorrente alla convenuta e di due in particolare che avevano scambiato alcune mail contenenti le foto di schermate video con alcuni cv di professionisti ritenuti particolarmente interessanti e potenzialmente proponibili a clienti nella nuova società in cui avevano deciso di andare a lavorare.
Una condotta contestata in quanto configurava, a detta della ricorrente ed ex datrice di lavoro dei due dipendenti citati in giudizio, un illecito trasferimento al nuovo datore di lavoro i «dati riservati appartenenti alla loro precedente azienda».
Il Tribunale, al termine di una lunga verifica fatta con l’ausilio di una Ctu per capire se il sistema di archiviazione delle informazioni fosse sicuro e quanti profili fossero stati duplicati e come trasmessi alla nuova società, ha stabilito che i due dipendenti fossero responsabili si sottrazione mediante fermo immagine di dati appartenenti all’ex datore di lavoro.
Operazione mossa dal solo obiettivo di condividerne con il nuovo datore di lavoro il possibile utilizzo per esigenze di ricerca avanzate da clienti.
In diritto, osserva il Tribunale «occorre fare riferimento al disposto dell’art. 99 I comma Cpi, nel testo vigente ratione temporis, il quale fa divieto di acquisire come anche di divulgare informazioni segrete soggette al legittimo controllo del detentore. La fattispecie tratteggia una soglia di tutela arretrata, che viene integrata dalla mera detenzione (nel caso di specie si è verificato anche il trasferimento di informazioni, ma ciò non era indispensabile per integrare l’illecito) senza che sia in alcun modo necessario che si sia prodotto un vantaggio in favore dell’autore della condotta o di terzi».
Inoltre, il Tribunale ha altresì affermato la responsabilità concorrente della convenuta in forza del disposto dell’art. 2049 c.c., ove si consideri che i dati sono stati ricevuti e scaricati sul pc aziendale e che tale attività fosse messa in atto dai due nuovi dipendenti a vantaggio del nuovo datore di lavoro.
«La responsabilità ex art. 2049 c.c., secondo consolidato orientamento di legittimità che questo Tribunale condivide, sussiste ogniqualvolta il fatto lesivo sia stato prodotto, o quanto meno agevolato, da un comportamento riconducibile all’attività lavorativa del dipendente, e quindi anche se questi abbia operato oltrepassando i limiti delle proprie mansioni o abbia agito all’insaputa del suo datore di lavoro».
Pertanto, il nuovo datore di lavoro convenuto è stato condannato in solido «per aver lo stesso fornito anche solo un contributo indiretto. In particolare, i dipendenti avevano trasferito quei dati nei pc aziendali della nuova azienda, li avevano utilizzati per accaparrarsi clientela mediante offerte più vantaggiose di quelle precedentemente riconosciute dal vecchio datore di lavoro, e avevano goduto della copertura economica e legale a protezione della pacifica violazione del patto di non concorrenza apposto al precedente contratto dalla nuova azienda».
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