Le società di servizi finanziari non offrono prodotti pensati per la clientela femminile. Perdendo così l’occasione di conquistare 700 miliardi di dollari all’anno di ricavi aggiuntivi
di Nicola Carosielli

Nonostante i numerosi passi avanti fatti sull’inclusività di genere nel mondo finanziario, c’è ancora qualcosa che non va. Non si tratta esclusivamente di presenza, o meno, di quote rose all’interno dei cda o nei ruoli executive (che vede l’Italia agli ultimi posti), ma di vere occasioni miliardarie, che i gruppi attivi nei servizi finanziari stanno perdendo. Per miopia o assenza di strategia e lungimiranza. Infatti, come stima il report Women in Financial Services 2020 realizzato dalla società di consulenza globale Oliver Wyman, le società del mondo dei servizi finanziari potrebbero realizzare oltre 700 miliardi di dollari di ricavi annuali addizionali se riuscissero a servire meglio la clientela femminile. Proprio alla luce di questo dato colpisce ancor di più la notizia sull’algoritmo «sessista» di Apple Card, la carta di credito collegata ad Apple Pay lanciata ad agosto dal gigante di Cupertino in collaborazione con Goldman Sachs.
Ricapitolando, il noto sviluppatore di software danese David Heinemeier Hansson ha denunciato un tetto sull’uso della Apple Card 20 volte superiore a quello di sua moglie, nonostante quest’ultima vantasse una valutazione migliore in termini di solvibilità, accusando così di sessismo la tecnologia che regola il servizio. E pensare che, secondo quanto stimato da Oliver Wyman, l’intero mercato dei servizi bancari dedicati alle donne può arrivare a valere 175 miliardi di dollari l’anno a livello globale. Guardando, per esempio, l’accesso ai mutui e al credito al consumo, se gli istituti bancari fornissero credito alle donne agli stessi tassi degli uomini, potrebbero ottenere 65 miliardi in margini di interesse e commissioni derivanti da prestiti a clienti retail esistenti. Va sicuramente riconosciuto un impegno nel passato da parte di alcuni istituti di credito, anche in Italia, che non hanno però ottenuto i risultati sperati. Colpa forse di un fattore psicologico, perché etichettare un prodotto, per quanto con scopi virtuosi, crea automaticamente un senso di disuguaglianza. Anche per questo c’è chi suggerisce un lavoro molto più profondo, meno basato sull’etichetta e più sulla sostanzialità dell’offerta. Un appello già recepito in Italia, dove alcune note banche nei prossimi mesi dovrebbero lanciare nuove offerte sul mercato retail. Per gli istituti di credito diventa poi indispensabile monitorare il numero sempre più crescente di imprenditrici che hanno bisogno di accedere al mercato dei capitali per lanciare o far crescere il proprio business. Se le banche erogassero finanziamenti per pmi alle donne con tassi uguali a quelli per gli uomini, potrebbero accedere a circa 30 miliardi di dollari in nuovi margini in interesse derivanti dall’estensione di questi prestiti a nuovi clienti. Un fattore che creerebbe più valore, contribuendo allo sviluppo del business e creando relazioni bancarie più ampie. Potrebbe valere invece 80 miliardi la gestione di clienti donne corporate o istituzionali, al momento non servite in maniera efficiente ed equivalente.

Sono però i servizi assicurativi quelli che stanno perdendo la grande occasione di salire sulla locomotiva rosa. Non assicurare o sotto-assicurare una donna sta erodendo ben 500 miliardi di dollari l’anno in premi emessi su nuovi clienti e premi più elevati per clienti. Anche considerando le differenze sui redditi. Una situazione che si tradurrebbe in un margine di 100 miliardi considerando risarcimenti, costi di distribuzione e redditi da investimenti. Così come i grandi money manager sembrano non cogliere la tendenza femminile nell’investire più in cash che in azioni e bond rispetto agli uomini. Perdendo così un’opportunità da 25 miliardi in nuove commissioni (solo nel primo anno) per wealth e asset manager derivanti dallo spostamento di denaro, che aumenterebbe proporzionalmente all’aumento del patrimonio femminile. (riproduzione riservata)

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