di Anna Messia

Le risorse delle compagnie di assicurazioni utilizzabili per sostenere la crescita economica sono ingenti: solo le prime sei prime compagnie italiane detengono complessivamente 516 miliardi di riserve tecniche, di cui 25 miliardi circa potrebbero essere reimmessi nel mercato e il loro effettivo impiego avrebbe impatti limitati sulla situazione patrimoniale delle imprese (variabili da 30 punti percentuali di Solvency di Cattolica a 24 di Unipol). Il tema è quello degli investimenti a lungo termine che il decreto Competitività, nel 2014, ha cercato di stimolare chiamando in campo anche le compagnie di assicurazione, alle quali ha concesso di utilizzare fino al 5% delle proprie riserve per investire direttamente nelle imprese (quota che potrebbe salire fino all’8% con richiesta motivata dell’impresa). All’estero, con la Germania in pole position, ha funzionato bene, con le compagnie di assicurazione che da tempo svolgono anche una funzione di finanziamento del sistema produttivo. In Italia, invece, l’iniziativa è rimasta al palo. Un mancato decollo che è stato analizzato da un gruppo di ricerca composto da Claudio Cacciamani, Elisa Bocchialini, Evita Allodi dell’Università di Parma e da Francesco Baldi dell’Università di Torino che hanno cercato di comprendere i motivi del fallimento del direct lending da parte delle compagnie di assicurazione italiane. L’analisi e le simulazioni condotte hanno preso in considerazione i bilanci delle sei principali compagnie di assicurazioni in Italia: Generali, Unipol, Cattolica, Itas, Reale Mutua e Vittoria, calcolando l’impatto sul requisito di capitale in relazione alla disciplina attuale dell’erogazione dei finanziamenti diretti, tenendo anche conto della possibilità che le compagnie hanno di siglare una partnership con una banca che si assuma fino alla metà del rischio investimenti. Nel caso di utilizzo della leva finanziaria del 5% il Solvency Ratio di Cattolica passerebbe, per esempio, dal 170,89% (di fine 2018) al 140,53%, quello di Generali dal 216 al 183% e nel caso di Unipol dal 163 al 144%. Nel calcolo è stato utilizzato un portafoglio di finanziamenti equilibrato per destinatari e scadenze e per ciascuna classe di attività e durata. È evidente che «non è stato il vincolo patrimoniale a frenare il finanziamento diretto», commenta Cacciamani, ma piuttosto ragioni di natura regolamentare. Il fatto è che la partnership con le banche non ha funzionato e le compagnie non si sono dotate degli strumenti che servirebbero per svolgere un’attività diversa dal loro core business. Tuttavia, come dimostrato, le risorse a disposizione non mancano. (riproduzione riservata)

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