Molte le perplessità degli avvocati sulle norme che sono al vaglio del parlamento

Pagine a cura di Antonio Ranalli

Rivoluzione o nuova «maledizione» per le imprese? La riforma della class action, che lo scorso 3 ottobre è stata approvata dalla Camera in prima lettura, preoccupa le imprese. La proposta di legge A.S. 844, presentata dal M5s, punta a riformare l’istituto dell’azione di classe, attualmente previsto dal Codice del consumo (dlgs n. 206 del 2005), riconducendone la disciplina al codice di procedura civile, nel quale verrà inserito un nuovo titolo VIII-bis, dagli articoli da 840-bis a 840-sexiesdecies, relativo ai procedimenti collettivi (azione di classe e azione inibitoria collettiva). Da una parte viene esteso l’ambito di applicazione dell’azione di classe, che sarà sempre esperibile da tutti coloro che avanzino pretese risarcitorie in relazione a lesione di «diritti individuali omogenei»; dall’altro, amplia gli strumenti di tutela, con la previsione di un’azione inibitoria collettiva verso gli autori di condotte pregiudizievoli di una pluralità di individui.

«La nostra legge sarà una vittoria per tutti: cittadini e non solo consumatori, che così avranno più strumenti per difendersi dalle vessazioni; tribunali ordinari, che avranno meno carico; imprese virtuose, che non avranno nulla da temere, perché potranno finalmente operare in un mercato in cui la concorrenza è leale e ispirato a meritocrazia», ha spiegato la relatrice, la capogruppo del M5S in commissione giustizia alla Camera, Angela Salafia.
Di diverso avviso le imprese: per il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia «la riscrittura delle norme sulla class action sembra essere concepita in modo punitivo verso le imprese». Il direttore generale di Confindustria Marcella Panucci ha rilevato «alcune criticità molto chiare. Le più importanti, rimaste finora irrisolte sono il tema delle adesioni dei singoli all’azione giudiziaria dopo la sentenza di condanna dell’impresa, che credo non necessiti di particolari commenti; la scelta di imporre alle imprese il pagamento di un compenso «premiale» agli avvocati quando la causa va a buon fine».

Ne abbiamo parlato con alcuni degli avvocati che, negli studi legali d’affari, si occupano di contenzioso. Oscar Podda, socio di Nunziante Magrone parla di «ritorno dell’Inquisizione», perché spiega «il ddl in materia di azione di classe in pare ispirato più al Malleus Maleficarum dei cacciatori di streghe quattrocenteschi che alla Costituzione. Viene infatti tratteggiato un rito specifico per questo tipo di controversie – verosimilmente complesse: quello sommario, senza possibilità di passaggio al processo ordinario nemmeno ove appaia necessaria un’istruttoria approfondita. Non solo: il Tribunale delle imprese è esonerato da «ogni formalità non essenziale» (cioè le garanzie del processo ordinario) con facoltà di procedere «nel modo che ritiene più opportuno» (ossia discrezionalmente), libero di avvalersi «di dati statistici e di presunzioni semplici». Ma questo solo «ai fini dell’accertamento della responsabilità del convenuto» – non della sua innocenza. Completa il quadro un forte ampliamento dei poteri inquisitori del magistrato, pesantemente sanzionato, e infine la regola generale di porre i costi della consulenza tecnica sempre a carico del convenuto. Insomma, una presunzione di colpevolezza da gestire con la giustizia sommaria. Vi è ragione di dubitare che il previsto provvedimento migliori l’amministrazione della giustizia, ma certamente arricchirà le «organizzazioni e associazioni» legittimate a proporre la class action e, soprattutto, gli avvocati – per i quali è previsto un «compenso premiale». Inseguendo l’America finiremo a Guantanamo? Non ci resta che sperare nella sensibilità e nella cultura giuridica dei nostri magistrati».

Parla invece di «iniziativa ambiziosa e di vasto impatto applicativo» Andrea Giussani, counsel di Bird & Bird, «non essendo più limitato lo strumento processuale alla tutela dei soli consumatori finali, e risultando applicabile anche agli illeciti commessi prima della sua entrata in vigore. Inoltre si introducono incentivi specifici all’esperimento dell’azione, e si contempla l’esecuzione forzata collettiva delle somme liquidate in favore della classe. Oltre però a destare qualche perplessità in alcuni aspetti più di dettaglio (ad esempio nella disciplina dell’intervento dei terzi), la proposta adotta una soluzione di sistema di carattere estremo particolarmente significativa: consente infatti agli appartenenti al gruppo tutelato di prestare adesione, avvalendosi degli effetti della pronuncia di merito favorevole, dopo la sua pronuncia. Si concretizza pertanto, in sostanza, una estensione soggettiva del giudicato «secundum eventum litis» (vale a dire a seconda dell’esito della causa: l’interessato fruisce degli effetti favorevoli della sentenza senza aver corso il rischio di subire quelli sfavorevoli)».
La nuova norma disciplina le class action di natura risarcitoria e inibitoria, ampliando significativamente l’ambito di applicazione dell’azione e introducendo alcune rilevanti modifiche procedurali. «Sotto il profilo procedurale», spiega Marco Torsello, socio di Arblit, «viene adottato il rito sommario di cognizione (art. 702-bis e ss. c.p.c.), anche se è ammessa una possibile attività istruttoria, anche complessa (comprensiva anche di una consulenza tecnica d’ufficio), con oneri normalmente a carico della parte convenuta. Il procedimento, poi, è suddiviso in tre fasi (identificazione della classe e valutazione dell’ammissibilità dell’azione; accertamento della responsabilità; liquidazione delle somme dovute agli aderenti), con la peculiare (ed assai criticata) novità per cui l’adesione all’azione di nuovi soggetti potrà avvenire anche nella fase finale di liquidazione, rendendo così prima di allora incerta la consistenza del rischio di soccombenza e, perciò, più difficile una soluzione transattiva della vertenza. Notevole rilevanza, infine, soprattutto nella fase di liquidazione, assumono le neo-istituite figure del “rappresentante comune degli aderenti” e del giudice delegato, la cui presenza (quasi che si trattasse di una procedura concorsuale) introduce un elemento di accentuata procedimentalizzazione che, unitamente alla previsione di un “compenso premiale” a favore del rappresentante comune e del legale che assiste la classe, può portare ad esiti particolarmente gravosi e, nella sostanza, punitivi per le imprese responsabili».

Per Paola Ghezzi partner di Cms in Italia, «in sede di discussione a Montecitorio sono stati approvati alcuni importanti emendamenti, ad esempio quello che esclude la retroattività della disciplina che avrebbe esposto le imprese a possibili contestazioni sul passato, mentre non sono stati approvati gli emendamenti finalizzati ad escludere la possibilità, per i soggetti portatori di diritti individuali omogenei a quelli del ricorrente, di aderire all’azione anche in un momento successivo alla pubblicazione della sentenza che accoglie l’azione di classe. Sul punto la proposta di legge costituisce indubbiamente un fattore profondamente distorsivo del fondamentale principio del contraddittorio e della parità delle posizioni processuali delle parti, senza contare il rischio finanziario teoricamente esponenziale delle imprese risultate soccombenti. È quindi auspicabile che in sede di discussione al Senato questa previsione venga ricondotta entro il perimetro della coerenza con i principi fondamentali del nostro sistema giuridico».

Accantonato il tema della retroattività, restano altre preoccupazioni. «Le previsioni della proposta rischiano di ampliare eccessivamente le situazioni in cui le imprese possono essere destinatarie di una azione di classe e, in assenza di criteri chiari e rigidi per l’ammissibilità dell’azione di classe, espongono le imprese a pretese difficilmente prevedibili anche rispetto alla entità del risarcimento complessivo. Si tratta poi di modifiche che favoriscono il moltiplicarsi di azioni (collettive e individuali) fondate sullo stesso titolo e un utilizzo pretestuoso del nuovo strumento processuale», afferma Francesca Rolla, head del dipartimento di contenzioso e arbitrati di Hogan Lovells Italia, «Infine, altrettanto preoccupante è la previsione di un compenso premiale stabilito per il rappresentante comune e per l’avvocato dell’attore; l’importo è una percentuale sulla somma complessivamente dovuta a tutti gli aderenti e integra una vera e propria «quota lite». Anche tale previsione incoraggia la promozione di azioni pretestuose e impongono oneri sproporzionati a carico del convenuto, ponendosi in contrasto sia con il divieto di patto di quota lite contenuto nella legge professionale forense, sia con principi cardine dell’ordinamento processuale civile (quale il principio per cui «chi perde paga»)».

Ora attenzione a quanto avverrà in Senato. «La proposta di legge porterà all’abrogazione degli articoli 139, 140 e 140-bis del Codice del Consumo che attualmente disciplinano l’azione di classe», prosegue Roberto Usai, counsel di Dwf, «con l’evidente finalità di aumentarne l’utilizzo, ampliarne le situazioni giuridiche tutelate e facilitare l’accesso a questo strumento, assecondando così le persistenti richieste delle associazioni dei consumatori, che considerano l’attuale normativa, vigente oramai da dieci anni, del tutto inadeguata e di scarsa applicazione pratica. Gli aspetti maggiormente rilevanti legati all’ampliamento delle tutele e dell’efficacia dell’azione di classe sono: l’ampliamento dei legittimati attivi alla proposizione dell’azione, che non saranno più i soli consumatori ed utenti, ma tutti i titolari di diritti individuali e omogenei; la possibilità di aderirvi anche dopo la sentenza di accoglimento dell’azione e l’utilizzo dell’area pubblica del PST del Ministero della giustizia per consentire agli utenti di essere informati sulle azioni di classe pendenti. In ordine alla riforma si è registrato in questi giorni un grande scetticismo, perché si teme possa ampliare in maniera enorme la possibilità di fare causa alle imprese, anche in maniera retroattiva, un po’ sul modello della class action americana. La proposta di legge, infine, non prevede alcuna retroattività: sul versante delle azioni collettive in corso si continuerà infatti ad applicare il Codice del Consumo».
Meritano di essere segnalate alcune novità più specifiche, con aspetti tipici degli ordinamenti del mondo anglosassone. «Ci si riferisce in particolare», spiega Carlo Santoro, partner di Cleary Gottlieb, «alla possibilità di produrre dichiarazioni testimoniali scritte, rilasciate a un avvocato, laddove invece il nostro sistema processuale è sempre stato tradizionalmente caratterizzato dalla oralità della prova testimoniale e da una forte diffidenza per la prova testimoniale scritta; alla possibilità di ordinare all’impresa l’esibizione di prove o categorie di prove, attraverso una forma di c.d. discovery (accompagnata da sanzioni per la mancata produzione o la distruzione delle prove da esibire), laddove invece il nostro sistema processuale è sempre stato tradizionalmente caratterizzato da una forte diffidenza rispetto a strumenti di prova così invasivi.

Quest’ultima, in particolare, è una novità con la quale le imprese (e gli avvocati) dovranno sempre più fare i conti in futuro e che è destinata a cambiare profondamente le modalità con cui le imprese stesse, soprattutto italiane, devono affrontare e gestire i contenziosi. Lo sviluppo di procedure interne e best practice per la gestione delle controversie sarà fondamentale negli anni a venire. Da ultimo, la riforma presta il fianco ad alcuni rilievi critici: da un lato, le esigenze di speditezza si traducono in una notevole compressione del diritto di difesa delle imprese, esposte ad accertamenti sommari che possono basarsi non solo su prove «non convenzionali» (come quelle illustrate) e presunzioni semplici, ma addirittura su «dati statistici»; dall’altro lato, la nuova struttura del procedimento comporta una moltiplicazione dei provvedimenti endoprocedimentali impugnabili, che possono determinare la sovrapposizione di varie fasi processuali con ricadute negative sull’efficienza e speditezza complessiva».

Altro aspetto da evidenziare è la disciplina del compenso in base alla «quota lite». Questo avviene, come spiega Marco Lupoli, junior Associate del team litigation di Roedl & Partner «con l’introduzione dell’art. 840-nonies c.p.c., da corrispondersi direttamente dal convenuto al rappresentante comune degli aderenti e al difensore dell’attore, in aggiunta al risarcimento del danno a ciascun aderente. In questo specifico caso, la quota percentuale, da un minimo di 0,5% a un massimo del 9%, andrebbe valutata in misura inversamente proporzionale sulla base di sette scaglioni in rapporto al numero dei componenti della classe, introducendo così un nuovo modello di retribuzione per la prestazione del servizio professionale degli avvocati. Sotto il profilo processuale, la competenza passa dalla Corte d’appello al Tribunale delle imprese. Attualmente, l’art. 140-bis del Codice del Consumo prevede unicamente due fasi: una di ammissibilità dell’azione, e l’altra di decisione sul merito. L’adesione all’azione è consentita, solo dopo l’ordinanza che ammette l’azione ma non a seguito della sentenza di merito. Con la riforma invece si aggiungerà una terza fase, relativa alla liquidazione delle somme agli aderenti alla classe, e introducendo la possibilità di aderire all’azione di classe anche successivamente alla sentenza che definisce il giudizio. La stessa sentenza infatti conterrà l’indicazione delle caratteristiche soggettive legittimanti l’adesione successiva, la nomina del giudice delegato per supervisionare la procedura di liquidazione e di un rappresentante comune degli aderenti che dovrà avere i requisiti per la nomina a curatore fallimentare. Si crea così un interessante parallelismo tra la procedura di liquidazione del danno agli aderenti e quella di liquidazione dell’attivo nelle procedure concorsuali».

La class action, così come proposta nel testo approvato, prevede da un lato la competenza in capo alla Sezioni Specializzate in materia di impresa e dall’altro un ampliamento delle situazioni giuridiche tutelate e degli strumenti di tutela. «Ciò dovrebbe consentire un equo contemperamento fra le esigenze di libertà di impresa e quelle di protezione dei cittadini e dei consumatori», spiega Andrea Mascetti dello studio legale Mascetti, «Le imprese serie e responsabili, che sono la maggioranza, non dovrebbero avere nulla da temere. La class action non potrà essere portata avanti arbitrariamente, essendo previsto un rigoroso vaglio preventivo di ammissibilità della stessa da parte dell’Autorità giudiziaria. Semmai il rischio di subire una class action potrà essere di incentivo per le aziende, anche in ottica concorrenziale, a fornire servizi e prodotti migliori. L’adesione successiva alla condanna costituisce un sistema per permettere una partecipazione massiccia alle azioni di classe, di modo che tutti soggetti deboli – spesso timorosi di contrapporsi ai «poteri forti»- abbiano sempre a disposizione uno strumento efficace per la tutela dei loro diritti. Peraltro le modalità ed i termini di adesione sono disciplinati e sono piuttosto contenuti. La questione dei rischi connessi all’applicazione retroattiva delle norme non si pone perché nel testo approvato alla Camera dei deputati, accogliendo un emendamento sul punto, si prevede che la riforma entrerà in vigore trascorsi 12 mesi dall’approvazione della legge e che agli illeciti commessi anteriormente continueranno ad applicarsi le disposizione del codice del consumo».

Quanto all’aspetto della remunerazione degli avvocati «si tratta di un meccanismo di calcolo molto generoso» spiega Daniele Vecchi, partner del dipartimento contenzioso di Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners. «Ad esempio, una causa del valore di 10 milioni (un risarcimento di 1.000 euro per 10 mila persone) varrebbe una remunerazione di 345 mila euro se in forma di class action, a fronte di spese legali per soli 80 mila euro in una causa normale; ancora, una causa che coinvolga 2 milioni di persone (ad es. gli utenti dell’Atac) per un risarcimento di 50 euro l’uno varrebbe ben 929.750 euro, mentre una causa ordinaria dello stesso valore di 100 milioni varrebbe «solo» 175 mila euro. È ragionevole pensare che la prospettiva di simili guadagni scateni una corsa alle class action. C’è da chiedersi se le imprese italiane (e il sistema giustizia nel complesso) possano permetterselo».

Come si pone la riforma italiana nel quadro europeo? «In Europa non esiste una disciplina uniforme della class action, anche se ci si sta muovendo in questa direzione», spiega Sara Biglieri, partner di Dentons, «la Commissione Europea ha infatti presentato lo scorso aprile una proposta di direttiva a tal fine. Negli ultimi anni, i singoli membri Ue hanno adottato diverse riforme che presentano sensibili differenze tra di loro quanto a diritti tutelabili, legittimazione ad agire, modalità di esercizio del diritto e di accertamento del danno lamentato dai singoli. In merito all’ambito dei diritti tutelabili, in Germania, Spagna e Francia ne sono beneficiari solo i consumatori o specifiche categorie di soggetti danneggiati. Nel Regno Unito, in Olanda e in Italia (con la riforma allo stato approvata dalla Camera e all’esame del Senato), la tutela è invece estesa ai diritti individuali in generale. Così è anche negli Stati Uniti, il Paese in cui questo istituto gode di maggiore fortuna e che pertanto rappresenta il necessario termine di paragone. Per quanto riguarda la legittimazione ad agire, trend comune per i Paesi europei è la scelta di riservare la tutela in giudizio ad associazioni di consumatori od organizzazioni accreditate. Fa eccezione l’Italia che nella proposta di legge amplia la possibilità di instaurare una class action anche ai singoli individui, similmente al sistema degli Usa ove qualsiasi soggetto si può far portavoce di interessi di classe e diventarne rappresentante. Una differenza sostanziale tra le class action europee e quella statunitense è comunque nel meccanismo di adesione alla classe. Mentre negli Usa tutti i possibili soggetti interessati aderiscono in automatico a meno che non si dissocino per far valere i propri interessi singolarmente (sistema di Opt-out), in Europa i singoli devono aderire espressamente all’azione per poterne beneficiare (sistema di Opt-in), entro un termine prefissato anteriore alla sentenza (Gran Bretagna e Germania) oppure anche successivamente alla sentenza (Francia, Olanda, Spagna e Italia). Quest’ultimo è certamente uno degli aspetti più critici della proposta di riforma italiana per l’impatto che avrebbe sulle imprese, le quali sarebbero pressoché impossibilitate a quantificare il loro rischio economico anche in corso di giudizio. La class action italiana potrebbe dunque diventare un grave elemento di incertezza e un potenziale strumento di indebita pressione per le aziende».
La class action storicamente ha sempre faticato a imporsi come strumento per i consumatori. «È quindi necessario un intervento del legislatore per far sì che il sistema decolli», prosegue Gianfranco di Garbo, partner di Baker McKenzie, «Ma il legislatore dovrebbe fare uno sforzo di originalità, evitando di replicare acriticamente alcune e solo alcune caratteristiche della class action esistenti in altri paesi, quanto avviene in altri paesi, ove la stessa è frutto di una evoluzione storica ben diversa (basti pensare che negli Usa l’istituto esiste fin dal 1938!). Gli ostacoli principali per il mancato sviluppo dell’istituto restano (a) la mancata regolamentazione della distribuzione dei costi del procedimento, (b) la mancata liberalizzazione dei compensi degli avvocati, che impedisce tuttora i patti di quota lite, facendo scemare l’interesse dei grandi studi a rappresentare la classe, (c) l’alto grado di rappresentatività richiesto ai promotori, che scoraggia l’iniziativa delle associazioni di consumatori che non possono contare, a priori, su un numero rilevante di potenziali aderenti aventi i requisiti per partecipare, e (d) la mancata previsione di un sistema di valutazione e liquidazione del danno che vada al di là della tradizionale limitazione del danno alle conseguenze immediate e dirette dell’illecito. Una riforma sostanziale di questi elementi potrebbe incoraggiare forme di finanziamento dell’azione, la c.d. third party litigation funding , già diffusa in altri paesi, e cioè l’intervento di banche o assicurazioni che finanziano la lite, uno strumento che ha comune presupposto la chiarezza della legislazione e l’aspettativa di sostanziali ritorni termini di risarcimento danni».
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