Normativa e prassi amministrativa dal 2016 a oggi
di a cura di Claudio Della Monica

1. Introduzione

Per Welfare aziendale si intende l’insieme dei benefici non monetari che un datore di lavoro può riconoscere ai propri lavoratori con la specifica finalità di soddisfare le loro esigenze e quelle dei loro familiari, coprendo tutti i bisogni sociali, dall’istruzione alla ricreazione, dall’assistenza sanitaria a quella sociale, dalla cura dei figli all’assistenza agli anziani.

Oggi ci sono almeno due buone ragioni per fare Welfare aziendale.

La prima: l’arretramento del Welfare pubblico, che garantisce sempre meno a tutti i cittadini la fruizione dei servizi sociali indispensabili, abbinato ai cambiamenti sociali degli ultimi decenni (modifica dei modelli familiari, indebolimento delle reti di protezione, frammentazione sociale e invecchiamento della popolazione). Questo genera nelle persone, e quindi anche nei lavoratori, una crescente e inarrestabile domanda di servizi di protezione sociale.

La seconda: il costo del lavoro con i suoi livelli difficili da sostenere in un mercato così globalizzato e altamente competitivo, che incoraggia il ricorso a forme di retribuzione esentasse quali l’erogazione di servizi, prestazioni e rimborsi di spese in luogo del «classico» stipendio in denaro. Vista da un’altra prospettiva, la rinuncia agli oneri contributivi e fiscali è il prezzo che lo Stato è disposto a riconoscere alle aziende impegnate a integrare il Welfare pubblico sempre meno efficiente.

Insomma, fare Welfare in azienda soddisfa tutti: i dipendenti, perché risponde ai nuovi bisogni sociali e perché aumenta il loro potere d’acquisto; il datore, perché riduce il costo del lavoro a fronte dell’impegno sociale che si assume.

Ma non è tutto. Ci sono anche altri effetti positivi.

È provato che l’aumento della soddisfazione dei lavoratori migliora il clima aziendale; li motiva verso continuità e stabilità del rapporto; incrementa negli stessi il senso di appartenenza al gruppo, favorendo una maggiore identificazione con gli obiettivi aziendali.

In una battuta: fare Welfare non solo è conveniente da un punto di vista economico, ma addirittura, aumentando il benessere dei lavoratori, sviluppa la produttività e competitività aziendali.

La presente trattazione fornisce una raccolta cronologica commentata, con taglio pratico e operativo, della normativa che si è susseguita in tema di Welfare aziendale a partire dalla legge di Stabilità del 2016 a tutt’oggi e della relativa prassi amministrativa che a seguire si è formata.

La legge di Stabilità 2016 (legge 28 dicembre 2015, n. 208)

Con la legge di Stabilità 2016 il legislatore mette finalmente mano a una normativa fiscale risalente al 1986 non più in grado di intercettare i nuovi bisogni sociali, apportando gli elementi di novità necessari a favorire il potenziale innovativo del Welfare aziendale.

Le modifiche e le integrazioni hanno essenzialmente riguardato l’art. 51 del dpr n. 917/86 (Testo unico delle imposte sui redditi) con interventi tendenti a coprire tutti i bisogni sociali, dall’istruzione alla ricreazione, dall’assistenza sanitaria a quella sociale, dalla cura dei figli all’assistenza degli anziani.

In particolare:

– vengono modificate le lettere f e f-bis del comma 2;

– viene inserita la lettera f-ter;

– viene introdotto il comma 3-bis;

– viene consentita la sostituibilità tra erogazioni in denaro (limitatamente ai premi di risultato detassati) e beni e servizi.

Le modifiche alla lettera f)

Il testo ante riforma prevedeva che non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente l’utilizzazione delle opere e dei servizi da parte della generalità dei dipendenti o categorie di dipendenti e dei loro familiari, anche non fiscalmente a carico, volontariamente sostenute dal datore di lavoro per specifiche finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto.

Il testo attuale stabilisce invece la non concorrenza al reddito dell’utilizzazione delle opere e dei servizi per le medesime finalità di cui sopra riconosciuti dal datore di lavoro alla generalità o categorie di dipendenti e ai loro familiari, anche non fiscalmente a carico, volontariamente o in conformità a disposizioni di contratto o di accordo o di regolamento aziendale.

Si è quindi passati da un approccio al Welfare aziendale di tipo «volontario-unilaterale» da parte del datore di lavoro a uno «bilaterale-contrattuale», con l’evidente intenzione di sensibilizzare la contrattazione collettiva di qualsiasi livello a spostare il baricentro dei negoziati dai trattamenti in denaro ai servizi di utilità sociale.

Il favore del legislatore verso quest’ultima soluzione si concretizza in ulteriori benefici fiscali: infatti, mentre con la precedente normativa la deducibilità dal reddito d’impresa delle spese relative a opere o servizi era limitata al 5 per mille dell’ammontare delle spese per prestazioni di lavoro dipendente risultante dalla dichiarazione dei redditi (art. 100, comma 1 del Tuir), con la nuova, in presenza di contratto o di accordo o di regolamento aziendale, detta deducibilità è integrale.

Le modifiche alla lettera f bis)

Il testo ante riforma prevedeva che non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente le somme, i servizi e le prestazioni erogati dal datore di lavoro alla generalità o categorie di dipendenti per la frequenza degli asili nido e di colonie climatiche da parte dei loro familiari, nonché per borse di studio a favore dei medesimi familiari.

Il nuovo testo, invece, amplia notevolmente il proprio raggio d’azione, includendo più genericamente tutti i servizi di educazione e istruzione anche in età prescolare, compresi i servizi integrativi e di mensa a essi connessi, nonché per la frequenza di ludoteche e di centri estivi e invernali, ferme restando le borse di studio.

Insomma, risultano agevolate non solo le spese per gli asili nido, ma anche quelle sostenute per le scuole dell’infanzia, per le scuole primarie, per le scuole secondarie di primo e secondo grado e per le università; sono incluse anche le spese per i servizi integrativi scolastici e di mensa. Data l’ampia formulazione della norma, rientrano inoltre: le spese per libri di testo scolastici, per il servizio di trasporto scolastico, per le gite didattiche, per le visite di istruzione, per altre iniziative incluse nei piani di offerta formativa scolastica e per i servizi di baby-sitting.

Infine, nella nuova lettera f bis) risultano inserite le ludoteche e sostituite le colonie climatiche con i più attuali centri estivi e invernali.

La nuova lettera f-ter)

La neonata lettera f-ter) prevede che non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente le somme e le prestazioni erogate dal datore di lavoro alla generalità o categorie di dipendenti per la fruizione dei servizi di assistenza ai familiari anziani o non autosufficienti.

Trattasi dei soggetti che hanno compiuto i 75 anni di età o di coloro che, come risulta da specifica certificazione medica, non sono in grado di compiere gli atti della vita quotidiana quali, per esempio, anche uno solo tra assumere alimenti, espletare le funzioni fisiologiche e provvedere all’igiene personale, deambulare, indossare gli indumenti. Inoltre, sono considerate non autosufficienti le persone che necessitino di sorveglianza continuativa.

Per quanto concerne le modalità di erogazione delle prestazioni, l’elemento che caratterizza in positivo sia il contenuto della lettera f-bis) che quello della lettera f-ter) è senza dubbio la previsione della possibilità, contrariamente a quanto statuito alla precedente lettera f), che il dipendente sostenga egli stesso la spesa e successivamente ne ottenga il rimborso dal datore di lavoro dietro presentazione dei relativi giustificativi.

Infatti, nell’un caso come nell’altro, la normativa esplicita il termine «le somme», che invece non si rinviene nella lettera f), secondo cui è consentito al datore di lavoro corrispondere ai dipendenti somme di denaro da destinare alle finalità indicate anche a titolo di rimborso di spese già sostenute.

Viceversa, nel caso della lettera f), i termini «opere e servizi» indicati dalla norma impongono che questi vengano messi direttamente a disposizione dal datore di lavoro oppure da parte di strutture esterne all’azienda, ma a condizione che i lavoratori restino sempre e comunque estranei al rapporto economico che intercorre tra l’azienda e il terzo erogatore del servizio. In altre parole, non ci deve essere alcun passaggio di denaro tra datore di lavoro e lavoratore, neanche a titolo di rimborso parziale.

Da notare che per tutte e tre le lettere f) non risulta modificato nel tempo il principio in base al quale il Welfare è per definizione collettivo: questo vuol dire che la non concorrenza al reddito di lavoro dipendente del valore dei servizi di Welfare è subordinata alla condizione che questi siano offerti alla generalità o categorie omogenee di dipendenti, a prescindere dalla circostanza che in concreto soltanto alcuni di essi ne usufruiscano.

È stato inoltre chiarito (Ministero delle finanze, circolari n. 326/E del 23 dicembre 1997 e n. 188/E del 16 luglio 1998) che l’espressione categoria di dipendenti non va intesa soltanto in riferimento alle categorie previste nel codice civile (dirigenti, quadri, operai ecc.), ma interpretata con richiamo a tutti i dipendenti di un certo tipo (per esempio, tutti quelli di un certo livello o di una certa qualifica o di una certa anzianità aziendale o reparto).

Esistono tuttavia casi, seppur limitati, in cui la normativa non impone necessariamente che l’offerta sia rivolta a una collettività di lavoratori per poter legittimamente usufruire dei benefici fiscali: trattasi per esempio dei beni e servizi fino a 258,23 annui e dei fondi pensione aperti ad adesione individuale o Pip. Peraltro, l’art. 51 del Tuir esclude dal reddito di lavoro dipendente anche alcune altre fattispecie, non propriamente rientranti nell’ambito di ciò che di norma viene definito «Welfare», che possono comunque essere utilizzate come incentivi, anche individuali, al fine di ottimizzare i costi aziendali e aumentare la disponibilità economica da parte dei lavoratori. In particolare:

– la concessione di prestiti ai dipendenti ove si assume, come base imponibile contributiva e fiscale, il 50% della differenza tra l’importo degli interessi calcolato al tasso ufficiale di riferimento vigente al termine di ciascun anno e l’importo degli interessi conteggiato al tasso applicato sugli stessi (attualmente il Tur è 0,00%, pertanto non esiste reddito imponibile), con la precisazione che, secondo l’Agenzia delle entrate (Risoluzione n. 46 del 28 maggio 2010), vi possono rientrare anche i contributi concessi ai dipendenti in conto interessi sui prestiti/mutui dagli stessi accesi presso istituti di credito autonomamente scelti, nel rispetto delle prescritte condizioni;

– la concessione ai dipendenti di fabbricati in locazione, uso o comodato, per i quali si assume, ai fini dell’individuazione della base imponibile, la differenza tra la rendita catastale del fabbricato aumentata di tutte le spese inerenti il fabbricato stesso, comprese le utenze non a carico dell’utilizzatore, e quanto corrisposto per il godimento del fabbricato stesso.

Il nuovo comma 3 bis)

Dopo il comma 3 dell’art. 51 del Tuir, la legge di Stabilità 2016 ha inserito il comma 3-bis, in base al quale «Ai fini dell’applicazione dei commi 2 e 3, l’erogazione di beni, prestazioni, opere e servizi da parte del datore di lavoro può avvenire mediante documenti di legittimazione, in formato cartaceo o elettronico, riportanti un valore nominale».

Questo significa che in luogo dei servizi diretti esclusi dal reddito di lavoro dipendente, dal 2016 è possibile ricorrere a documenti di legittimazione (c.d. voucher) da spendere presso fornitori di servizi accreditati (per esempio asili nido o servizi di assistenza agli anziani).

Con il Decreto interministeriale 25 marzo 2016 il legislatore ha definito con precisione i limiti e l’ambito applicativo dei «voucher». Viene infatti specificato che questi:

1) devono essere nominativi;

2) non possono essere utilizzati da persone diverse dall’avente diritto, con eccezione dei suoi familiari;

3) non possono essere monetizzati o ceduti a terzi;

4) devono dare diritto a un solo bene, prestazione, opera o servizio per l’intero valore nominale senza integrazioni in denaro a carico del titolare.

Sono fatti salvi i beni e servizi di valore inferiore a 258,23 , che possono essere cumulativamente rappresentati da un unico documento di legittimazione.

Pertanto, mentre il voucher monouso dà diritto a un solo bene, prestazione, opera o servizio, predeterminato ab origine e definito nel valore, il voucher cumulativo può rappresentare una pluralità di beni, determinabili anche attraverso il rinvio – per esempio – a una elencazione contenuta su una piattaforma elettronica, che il dipendente può combinare a sua scelta per un valore non eccedente i suddetti 258,23 .

È fatta altresì salva la disciplina relativa ai servizi sostitutivi di mensa (buoni pasto o ticket restaurant), prevedendo che l’affidamento e la gestione degli stessi continuino a essere disciplinati dal dpr 5 ottobre 2010, n. 207. I voucher per l’erogazione di beni, prestazioni, opere e servizi da parte del datore di lavoro costituiscono infatti uno strumento diverso e distinto dai buoni pasto, che trovano la loro specifica disciplina nella lettera c) del 2° comma dell’art. 51 del Tuir.

Peraltro, anche i servizi sostitutivi di mensa possono essere oggetto di scelta da parte del lavoratore in caso di conversione del premio di risultato in strumenti di Welfare (vedi infra).

In generale, l’uso del voucher agevola l’utilizzo di strutture di soggetti terzi per erogare ai dipendenti le prestazioni e i servizi rappresentati, alle quali il datore di lavoro può far ricorso a condizione che il dipendente non intervenga nel rapporto economico con la struttura che eroga la prestazione. Anche nel caso di voucher, quindi, il lavoratore assume la veste di mero destinatario del servizio, estraneo al contratto in virtù del quale acquista il relativo diritto.

La prestazione rappresentata dal voucher può consistere anche in somministrazioni continuative o ripetute nel tempo, indicate nel loro valore complessivo, quali, per esempio, abbonamenti annuali a teatri, alla palestra, cicli di terapie mediche, pacchetti di lezioni di nuoto.

Per quanto riguarda il divieto di integrazioni economiche a carico del titolare del voucher, non rilevano eventuali corrispettivi pagati dal dipendente alla struttura che eroga il servizio, a seguito di un rapporto contrattuale stipulato autonomamente.

Ad esempio, se la prestazione ricreativa erogata dal datore di lavoro mediante voucher consiste in dieci ingressi in palestra, il pagamento dell’undicesimo, contrattato direttamente dal dipendente, non costituisce una sua integrazione monetaria.

I voucher, quali documenti di legittimazione, non rilevano ai fini Iva, in quanto la relativa cessione è assimilata a un mero trasferimento di denaro ex art. 2, comma 3, lett. a), del dpr n. 633/72.

In base all’art. 2002 del codice civile il documento di legittimazione, a differenza del «titolo rappresentativo di beni e servizi» ex art. 1996 del codice civile «può essere considerato alla stregua di un documento che consente l’identificazione dell’avente diritto all’acquisto di un bene o di un servizio, con la possibilità di trasferire tale diritto senza l’osservanza delle forme proprie della cessione».

Ne consegue che, come chiarito dall’Agenzia delle entrate (Risoluzione n. 21/E del 22 febbraio 2011), la circolazione del voucher non comporta anticipazione della cessione del bene cui il buono stesso dà diritto e non assume rilevanza ai fini Iva.

A differenza quindi di altri casi ove l’Agenzia delle entrate è stata chiamata a pronunciarsi (buoni benzina, buoni acquisto, tessere ricaricabili multiuso, Tourist e Museum Card, buoni regalo) nel caso specifico è già la normativa che qualifica il voucher ex comma 3-bis dell’art. 51 del Tuir quale documento di legittimazione, fornendo di conseguenza precise indicazioni sul suo inquadramento ai fini Iva.

La sostituibilità tra erogazioni in denaro e beni e servizi

La più importante novità della legge di Stabilità per il 2016 è stata l’apertura alla sostituibilità tra denaro e servizi, anche se limitata a una precisa fattispecie.

Infatti, nel reintrodurre un sistema di tassazione agevolata, consistente nell’applicazione di un’imposta sostitutiva dell’Irpef e delle relative addizionali del 10% ai premi di risultato – di ammontare variabile, legati a incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione – il legislatore ha previsto la possibilità di convertire i suddetti premi in servizi di Welfare interamente detassati (c.d. «welfarizzazione» del premio di risultato), a patto che il lavoratore ne faccia richiesta sulla scorta di quanto previsto dal contratto collettivo aziendale o territoriale di riferimento.

Detto che i benefici fiscali del premio di risultato operano entro il limite di 3.000,00 lordi annui (4.000,00 qualora i lavoratori siano coinvolti pariteticamente nell’organizzazione del lavoro) a favore dei dipendenti con un reddito riferito all’anno precedente inferiore a 80.000,00 , la scelta della welfarizzazione si traduce comunque in una maggiore disponibilità economica a beneficio del lavoratore, considerato che il premio di risultato è al lordo delle ritenute contributive e fiscali a suo carico (queste ultime anche se ridotte nella misura del 10%), mentre lo stesso importo in Welfare è al netto. Ma non solo.

Oltre all’agevolazione fiscale immediata, il lavoratore che opta per il Welfare ha anche il vantaggio che il reddito derivante dalla produttività non risulta né computato ai fini dell’accesso alle prestazioni previdenziali e assistenziali pubbliche; né ricompreso nei limiti reddituali (80.000,00 annui) per l’accesso al premio di risultato detassato dell’anno successivo. Facciamo un esempio: si pensi a un dipendente che ha percepito, a titolo di retribuzione, un reddito di lavoro dipendente di 79.000,00 più 3.000,00 di premio di risultato (non convertiti in Welfare) in un dato anno; nel successivo periodo di imposta non potrebbe più accedere alla detassazione del premio di risultato dato che la somma degli emolumenti, pari a 82.000,00 , eccederebbe il limite previsto dalla norma. Qualora invece lo stesso dipendente opti per la sostituzione del premio di 3.000,00 in servizi di Welfare, può aver accesso nel successivo anno al beneficio derivante dal contratto aziendale sulla produttività, non verificandosi il superamento della soglia degli 80.000,00 .

La legge di Bilancio 2017 (legge 11 dicembre 2016, n. 232)

Con la legge di Bilancio 2017 viene ulteriormente incentivata la diffusione del Welfare in azienda.

Viene precisato innanzitutto che le agevolazioni fiscali derivanti dall’utilizzo dei diversi servizi di Welfare indicati alla lettera f) del comma 2 dell’art. 51 del Tuir permangono anche qualora questi siano contrattati in ambito nazionale o territoriale e non solo ed esclusivamente a livello aziendale. La precedente formulazione della norma limitava infatti il beneficio al rispetto delle «disposizioni di contratto o di accordo o di regolamento aziendale». Con l’intervenuta modifica la contrattazione dei servizi di Welfare per finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto si sposta quindi al livello più alto.

Inoltre, dopo la lettera f-ter), viene inserita la nuova lettera f-quater) secondo cui non concorrono a formare reddito di lavoro dipendente i contributi e i premi versati dal datore di lavoro a favore della generalità o categorie di dipendenti per prestazioni, anche in forma assicurativa, aventi per oggetto il rischio di non autosufficienza nel compimento degli atti della vita quotidiana, le cui caratteristiche sono definite dall’articolo 2, comma 2, lettera d), numeri 1) e 2), del decreto del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali 27 ottobre 2009 o aventi per oggetto il rischio di gravi patologie (trattasi delle polizze assicurative denominate «long term care» e «dread disease»).

Detta agevolazione integra quanto stabilito alla lettera f-ter), permettendo di esentare da imposizione fiscale le prestazioni anche sotto forma assicurativa erogate dal datore di lavoro ai dipendenti che necessitino dei servizi di assistenza ai familiari anziani o non autosufficienti.

Ancora: in caso di scelta da parte del dipendente di usufruire di servizi sanitari oppure di previdenza complementare in luogo del premio di risultato, le somme destinate ai predetti servizi non concorrono ai limiti di deducibilità di 3.615,20 per le spese sanitarie e di 5.164,57 per i versamenti alla pensione integrativa. Ad esempio se un lavoratore, che già contribuisce alla propria previdenza complementare con 5.164,57 annue, sceglie di destinare a tal fine anche i 3.000,00 di premio di risultato, questi ultimi non concorrono a formare il suo reddito di lavoro dipendente anche se il limite fiscale è stato ampiamente superato.

Ulteriore novità è che dal 1° gennaio 2017 il lavoratore può chiedere al datore di lavoro di convertire il premio di risultato anche con i servizi previsti dal comma 4 dell’art. 51 del Tuir (autovetture a uso promiscuo, prestiti, immobili a uso foresteria, trasporto ferroviario) e non più solo con quelli previsti al comma 2 (i c.d. «servizi sociali», dall’istruzione alla ricreazione, dall’assistenza sanitaria a quella sociale, dalla cura dei figli all’assistenza agli anziani) e all’ultimo periodo del comma 3 (servizi di importo non superiore nel periodo d’imposta a 258,23 ), come invece previsto dalla legge di Stabilità per il 2016.

In caso di sostituzione i servizi prescelti sono da assoggettare a tassazione secondo le regole ordinarie di determinazione convenzionale del reddito imponibile.

Per esempio, in caso di auto aziendale assegnata al dipendente per uso promiscuo (cioè sia per lavoro sia a fini privati), il vantaggio della conversione per il lavoratore potrebbe consistere nell’abbattimento dei contributi e dell’Irpef dovuti sul reddito imponibile convenzionale di 4.500 km annui valorizzati al costo unitario Aci.

Il Decreto interministeriale n. 122 del 7 giugno 2017

Con l’entrata in vigore lo scorso 9 settembre del Decreto n. 122 del 7 giugno 2017, recante disposizioni in materia di servizi sostitutivi di mensa, in attuazione dell’articolo 144, comma 5, del dlgs n. 50 del 18 aprile 2016, è più agevole utilizzare i buoni pasto (ticket restaurant) in luogo del denaro contante grazie alla possibilità di cumularli fino al numero di otto nell’ambito della medesima spesa.

In base all’art. 51, comma 2, lett. c) del Tuir non concorrono alla formazione del reddito di lavoro dipendente i buoni pasto fino all’importo complessivo giornaliero di euro 5,29 (aumentato dal 1° luglio 2015 a euro 7,00 nel caso di buoni pasto in forma elettronica). La previsione normativa costituisce una deroga al principio di onnicomprensività che caratterizza il reddito di lavoro dipendente ed è ispirata dalla volontà del legislatore di favorire sia i dipendenti che, pur costretti a consumare il pasto nel corso della giornata lavorativa, non fruiscono di un servizio mensa; sia gli imprenditori, al fine di evitare una prolungata assenza dal posto di lavoro da parte dei lavoratori. Con la circolare n. 326/E/1997 il Ministero delle finanze ha inoltre chiarito che: 1) i buoni pasto devono essere erogati alla generalità o categorie omogenee di dipendenti; 2) deve essere individuabile un collegamento fra i buoni e il tipo di prestazione cui danno diritto: quindi i tagliandi non possono essere cedibili, né cumulabili, né commerciabili e né convertibili in denaro; 3) devono consentire l’espletamento della prestazione unicamente nei confronti dei dipendenti che ne hanno diritto. Vincoli precisi e rigorosi che trovano conferma anche nella Risoluzione n. 153/E del 15 dicembre 2004 dell’Agenzia delle entrate ove viene evidenziato che la fruizione di una pausa di lavoro per il vitto costituisce condizione necessaria per godere dei benefici fiscali dei buoni pasto, rappresentando questi una prestazione sostitutiva del servizio mensa.

Successivamente il Dpcm 18 novembre 2005, su delega della legge n. 168/2005, cambia rotta specificando che i buoni pasto possono essere utilizzati dai dipendenti, a tempo pieno o parziale, anche qualora l’orario di lavoro non preveda una pausa per il pasto. Quindi, doppia apertura: sì ai lavoratori part-time e sì anche se non c’è la pausa pranzo; così, con quest’ultimo provvedimento, comincia a vacillare la stretta connessione tra buono pasto e consumazione del vitto e, di conseguenza, i presupposti che avevano indotto il legislatore a concedere i benefici fiscali a favore di questa tipologia di prestazione. Volendo estremizzare, una categoria omogenea può ben essere costituita da lavoratori per i quali non è prevista la pausa di lavoro e che finiranno con l’utilizzare diversamente i buoni pasto.

Ma ecco poi il Decreto n. 122/2017 che, consentendo la cumulabilità addirittura fino a otto tagliandi: 1) avvicina ancora di più i buoni pasto al denaro contante, fissando una regola precisa di utilizzo; 2) solleva i datori di lavoro dalla preoccupazione di possibili controlli dei soggetti preposti tesi a disconoscere i benefici fiscali a causa di un uso disinvolto dei tagliandi, specie in tema di nominatività e cumulabilità; 3) tenderà a favorire la diffusione dei buoni pasto emessi in forma elettronica, il cui impiego non è ancora decollato non solo per il mancato adeguamento delle dotazioni elettroniche dei gestori, ma anche per i timori esposti da parte delle aziende.

Con l’apertura sull’utilizzo dei buoni pasto, appare decisamente superata, oltre che discriminatoria, la norma contenuta anch’essa nella lett. c), comma 2, art. 51 Tuir che giustifica l’esenzione fiscale delle indennità in denaro, sostitutive della mensa, corrisposte agli addetti ai cantieri edili e ad altre strutture lavorative ubicate in zone isolate, con l’assunto che manchino servizi di ristorazione agevolmente raggiungibili.

Il Decreto interministeriale 12 settembre 2017

Il Decreto 12 settembre 2017 in attuazione dell’art. 25 del dlgs n. 80/2015 («Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro»), pubblicato sulla G.U. n. 248 del 23 ottobre 2017, definisce i criteri e le modalità di utilizzo delle risorse finanziarie destinate ai datori di lavoro del settore privato per la promozione della conciliazione tra vita professionale e vita privata attraverso la stipula di contratti collettivi aziendali, anche in recepimento di contratti collettivi territoriali.

Compatibilmente con le risorse disponibili, il beneficio è riconosciuto sotto forma di sgravio contributivo fino a un massimo del 5% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali dichiarata dal datore di lavoro nel corso dell’anno civile precedente, limitatamente ai contratti depositati telematicamente presso il Ministero del lavoro dal 1° gennaio 2017 al 31 agosto 2018.

Le aree di intervento tra le quali individuare le misure di conciliazione riguardano: il sostegno alla genitorialità (estensione temporale dei congedi parentali, nidi d’infanzia, asili nido, spazi ludico-ricreativi aziendali, percorsi formativi, buoni per l’acquisto di servizi di baby sitting); la flessibilità organizzativa (lavoro agile, flessibilità in entrata e uscita, part-time, banca ore, cessione solidale dei permessi); le misure di Welfare aziendale (convenzioni con strutture per servizi di time saving e di cura, buoni per l’acquisto di servizi di cura).

Per poter ottenere gli sgravi, le misure di conciliazione sono individuate nel numero minimo di due tra quelle sopra indicate, di cui almeno una nell’area «sostegno alla genitorialità» o nell’area «flessibilità organizzativa».

Inoltre, il contratto collettivo aziendale deve riguardare un numero di lavoratori pari almeno al 70% della media dei dipendenti occupati nell’anno precedente. Ancora: le misure di conciliazione introdotte dai contratti collettivi aziendali devono essere innovative e migliorative rispetto a quanto già previsto dai contratti collettivi nazionali di riferimento.

Balza immediatamente all’occhio la sovrapposizione di diverse agevolazioni contributive e fiscali con riferimento alla maggior parte delle misure di conciliazione previste dal Decreto. Non sfugge infatti come interventi quali la messa a disposizione di asili nido, spazi ludico-ricreativi aziendali, percorsi formativi, buoni per l’acquisto di servizi di baby sitting e di servizi di cura, nonché la stipula di convenzioni con strutture per servizi di time saving e di cura, risultano già esclusi dal reddito di lavoro dipendente ai sensi del comma 2 dell’art. 51 del Tuir e che, a certe determinate condizioni, sono interamente deducibili dal reddito d’impresa ai sensi dell’art. 95 del Tuir, anche se offerti in sostituzione, in tutto o in parte, del premio di risultato. Stesso discorso vale per le modalità flessibili di esecuzione della prestazione di lavoro subordinato, come quella del lavoro agile, se connesse a sistemi di retribuzione variabile, che consentono già ai datori di lavoro di accedere alla detassazione.

All’atto pratico, è possibile contrattare con parte sindacale un Piano Welfare a favore del personale dipendente recante un triplice vantaggio da un punto di vista fiscale. Detto Piano deve contenere misure innovative e migliorative rispetto a quanto già previsto dai contratti collettivi nazionali di riferimento ed essere orientato alla conciliazione tra vita professionale e vita privata, comprendendo per esempio la messa a disposizione di servizi ai dipendenti quali spazi ludico-ricreativi aziendali, percorsi formativi e convenzioni con strutture di cura.

Il primo vantaggio consiste nel fatto che il valore di questi servizi, ai sensi della lettera f), comma 2, dell’art. 51 del Tuir, non concorre a formare il reddito di lavoro dipendente. Il secondo è che la sottoscrizione di un contratto collettivo aziendale consente l’integrale deducibilità delle spese sostenute per i predetti servizi dal reddito d’impresa. Il terzo è che il datore di lavoro può usufruire anche della decontribuzione parziale sulla retribuzione dei propri dipendenti interessati dal Piano, entro la misura del 5% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali dichiarata all’Inps mediante Uniemens nel corso dell’anno civile precedente la domanda.

Per quanto concerne le modalità operative del deposito telematico del contratto collettivo, il Ministero del lavoro ha specificato che i datori di lavoro che hanno già provveduto al deposito di un contratto aziendale ai fini del premio di risultato e della detassazione, secondo le modalità del Decreto interministeriale del 25 marzo 2016, non devono effettuarne uno nuovo.

Si segnala infine che, in attesa dei necessari chiarimenti da parte dell’Inps, non è chiaro se per accedere allo sgravio contributivo sia possibile fare semplice rinvio al contratto collettivo territoriale come avviene nel caso del premio di risultato detassato, oppure se occorre stipulare in azienda un contratto con controparte sindacale per la promozione della conciliazione tra vita professionale e vita privata. In questa seconda ipotesi le pmi, ove il sindacato è più difficilmente presente, risulterebbero certamente penalizzate.

Il dubbio sorge infatti a causa della diversa formulazione del testo normativo: il Decreto interministeriale del 25 marzo 2016, che regolamenta il premio di risultato detassato, condiziona la concessione della detassazione fiscale alla sottoscrizione di contratti collettivi aziendali o territoriali di cui all’art. 51 del dlgs n. 81/2015, mentre invece il Decreto del 12 settembre 2017 individua il contratto collettivo aziendale, che può recepire il contratto territoriale, l’unico strumento di natura negoziale in grado di garantire ai datori di lavoro l’ammissione al beneficio contributivo.

La circolare dell’Agenzia delle entrate n. 28/E del 15 giugno 2016

Con la circolare n. 28/E del 15 giugno 2016 l’Agenzia delle entrate riepiloga e interpreta le novità introdotte dalla legge di Stabilità 2016, fornendo le proprie definizioni di «benefit» – cioè beni e servizi non soggetti a tassazione – e «flexible benefit» – cioè piani che mettono a disposizione del dipendente un paniere di «utilità» tra i quali egli può scegliere quelli più rispondenti alle proprie esigenze.

In ambito Welfare, i più importanti chiarimenti riguardano le condizioni per poter sostituire, in tutto o in parte, le somme di denaro corrisposte dal datore di lavoro ai propri dipendenti con i benefit senza rinunciare alle agevolazioni fiscali. In particolare:

– le somme devono costituire premi di risultato riconducibili al regime fiscale agevolato;

– la fungibilità tra premi di risultato e benefit deve essere contemplata dalla contrattazione collettiva di secondo livello, nel senso che la possibilità da parte del dipendente di scegliere se convertire in tutto o in parte il premio in denaro in benefit deve essere prevista da contratti collettivi aziendali o territoriali sottoscritti da sigle sindacali maggiormente rappresentative.

Le modalità di esercizio della scelta e/o della revoca sono affidate all’autonomia delle parti o al contratto stesso: quindi ogni dipendente dopo aver optato per la trasformazione del premio di risultato in strumenti di Welfare può successivamente revocare tale preferenza.

L’Agenzia delle entrate chiarisce anche quando non è possibile la conversione tra somme di denaro e benefit, in particolare:

1) la sostituzione è prevista al di fuori delle condizioni stabilite per l’applicazione dell’imposta sostitutiva del 10%. Per esempio, in caso di beni e servizi erogati ai dipendenti con un reddito superiore, nell’anno precedente a quello di erogazione, a 80.000,00 ; oppure erogati a dipendenti con un reddito inferiore ma in sostituzione di premi non correlati a incrementi di produttività, qualità ed efficienza; o ancora per la parte di premio di risultato che ecceda i 3.000,00 . In tali casi i beni e servizi concorrono interamente alla determinazione del reddito di lavoro dipendente;

2) i benefit sono direttamente erogati dal datore di lavoro ai dipendenti senza la possibilità di conversione monetaria: ciò si verifica quando l’obbligazione del datore di lavoro ha oggetto sin dall’origine l’erogazione solo di beni e servizi senza opzione con premi in denaro. In tal caso, i beni e servizi attribuiti ai lavoratori, anche a titolo premiale, non concorrono alla formazione del reddito di lavoro dipendente.

Alla luce dei suddetti chiarimenti e tenuto altresì conto delle novità apportate dalla Legge di Stabilità per il 2016, è possibile individuare diverse modalità con le quali accordare i benefit in azienda.

In mancanza di controparte sindacale, il Welfare può essere introdotto volontariamente dal datore di lavoro, quale atto occasionale o liberale; oppure mediante regolamento in adempimento di un obbligo negoziale, che consiste in un documento strutturato che, per quanto volontario e unilaterale, sia vincolante nei confronti dei dipendenti.

In questo secondo caso, l’azienda ha il vantaggio di usufruire della piena deducibilità dal reddito d’impresa delle spese in opere, servizi e prestazioni messe a disposizione dei lavoratori, venendo meno il limite del 5 per mille dell’ammontare delle spese per prestazioni di lavoro dipendente risultante dalla dichiarazione dei redditi (art. 100, comma 1, del Tuir).

In presenza invece di controparte sindacale, la contrattazione collettiva aziendale che regolamenta il premio di risultato detassato può prevedere la conversione in strumenti di Welfare del premio stesso; oppure, può contemplare che l’obbligazione del datore di lavoro abbia a oggetto, sin dal suo nascere, l’erogazione di benefit e può essere adempiuta solo con tale modalità.

Anche in queste ipotesi, l’azienda ha il vantaggio di usufruire della piena deducibilità dal reddito d’impresa delle spese in bene e servizi.

La scelta da parte del datore di lavoro di quale delle suddette modalità attivare dipende dalla composizione e dai fabbisogni manifestati da parte dei dipendenti, al fine di individuare i servizi/prestazioni da inserire nel Piano Welfare; dai riflessi retributivi, contributivi e fiscali che i servizi/prestazioni scelti possono generare; dal grado di coinvolgimento dei dipendenti e delle loro rappresentanze sindacali nella scelta dei benefit; nonché dal budget dei costi complessivi sostenibili dal datore di lavoro e dalla relativa assegnazione ai dipendenti.

Il Welfare può essere infatti finanziato con risorse aggiuntive rispetto a quelle ordinariamente impegnate per i lavoratori; oppure con risorse sì aggiuntive ma al tempo stesso sostitutive, decidendo per esempio, di trasformare in tutto o in parte i bonus periodici soggettivi o i premi di fine anno non contrattualizzati (e con il solo limite dei diritti cd «quesiti») con servizi di Welfare di pari valore rivolto a categorie specificamente individuate; infine, con risorse esclusivamente sostitutive, limitatamente all’ipotesi della welfarizzazione del premio di risultato.

È in ogni caso esclusa la possibilità di sostituire «superminimi» o «premi continuativi» con servizi di Welfare.

La risposta a interpello n. 904-1533/2016 della Dre Lombardia: Piano Welfare e utilizzo di piattaforma web

Con la risposta a interpello n. 904-1533/2016 del 18 novembre 2016 l’Agenzia delle entrate dà il via libera ai Piani Welfare aziendali mediante l’utilizzo di una piattaforma web che consenta ai dipendenti, destinatari di un budget figurativo di spesa (cd. «credito Welfare»), la fruizione integrata e flessibile dei servizi previsti dal Piano stesso secondo le proprie necessità ed esigenze.

L’Agenzia ritiene che nulla osti al godimento dei benefici fiscali, di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 51 del Tuir, la modalità figurativa di utilizzo del plafond di spesa a disposizione dei singoli dipendenti, sempre che il credito Welfare assegnato, in caso di non impiego, non venga convertito in denaro e rimborsato al lavoratore.

Per quanto riguarda invece il secondo quesito posto con il medesimo interpello, cioè la possibilità che il budget figurativo di spesa sia diversificato tra ogni dipendente, l’Agenzia ritiene che per rientrare nelle fattispecie esentative di cui ai citati commi 2 e 3 dell’art. 51 Tuir, è necessario che il plafond di spesa, seppur differenziato, abbia quanto meno la medesima consistenza all’interno della singola categoria di dipendenti considerata.

La risposta a interpello n. 904-1532/2016 della Dre Lombardia: stipula di polizza sanitaria «diretta»

Con risposta a interpello n. 904-1532/2016 del 18 novembre 2016 l’Agenzia delle entrate si pronuncia sulla possibilità da parte dei datori di lavoro di offrire alla generalità o categorie di dipendenti una specifica polizza assicurativa di assistenza sanitaria che preveda per i beneficiari e i loro familiari esclusivamente prestazioni di servizi da parte di strutture sanitarie convenzionate, senza quindi risarcimenti e/o rimborsi di spese per prestazioni, usufruendo del regime di esenzione da imposizione sul reddito da lavoro dipendente previsto dall’art. 51, comma 2, lettera f) del Tuir.

Secondo l’istante tra i predetti servizi, accanto a quelli già contemplati che prevedono la messa a disposizione diretta dei dipendenti di strutture sanitarie oppure il ricorso a organizzazioni esterne con le quali il datore di lavoro stipula specifiche convenzioni, ben può rientrare la sottoscrizione di specifiche polizze di assistenza sanitaria in forma esclusivamente diretta, ove i dipendenti si avvalgono di strutture convenzionate con la Compagnia assicurativa. In questo caso, al fine di godere delle agevolazioni fiscali, non è necessario l’intervento di un ente o cassa avente esclusivamente fine assistenziale.

L’Agenzia delle entrate conferma invece che nel caso di specie è inapplicabile il regime di esclusione da imposizione sul reddito di lavoro dipendente poiché i premi assicurativi sono posti a carico del datore di lavoro e i dipendenti interessati dal rapporto assicurativo non sono contraenti in senso tecnico ma terzi assicurati, ragion per cui l’importo corrispondente ai premi pagati dal datore di lavoro in nome proprio e per conto di ciascun dipendente-assicurato costituisce reddito quale «valore» percepito in relazione al rapporto di lavoro. Infatti già la circolare n. 326/E/1997, aveva ricompreso, tra le somme e i valori soggetti a imposizione in quanto riconducibili al rapporto lavorativo, i premi per assicurazioni sanitarie pagati dal datore di lavoro.

Peraltro, la posizione di svantaggio fiscale che occupano tutte le polizze assicurative nell’ambito del Welfare aziendale, dal momento in cui i premi pagati dal datore di lavoro a favore dei propri dipendenti sono normalmente soggette a imposizione, è stata almeno in parte superata dalla legge di Bilancio 2017 che ha stabilito l’integrale esenzione contributiva e fiscale dei premi relativi alle polizze assicurative «long term care» e «dread disease», per le terapie di lungo corso e malattie gravi.

La risposta a interpello n. 954-1417/2016 della Direzione centrale normativa: chiarimenti su amministratori, categorie e regolamento aziendale

La risposta a interpello n. 954-1417/2016 dell’Agenzia delle entrate del 10 aprile 2017 fornisce importanti chiarimenti sui destinatari dei Piani Welfare, sulla composizione delle categorie beneficiarie, nonché sul contenuto del regolamento aziendale ai fini dell’integrale deducibilità dal reddito d’impresa dei costi Welfare sostenuti dal datore di lavoro.

La società istante, srl amministrata da un cda di due componenti percettori di un compenso fiscalmente inquadrabile tra i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente ex art. 50, lett c-bis) del Tuir e con sei dipendenti, espone di aver deciso di attivare un Piano Welfare formato da due servizi aventi finalità ricreative (abbonamento a palestra e viaggi all’estero), disciplinato da specifico regolamento aziendale allegato all’interpello, indirizzato sia agli amministratori che al personale dipendente. Detto regolamento prevede l’assegnazione di un budget di spesa «figurativo» (credito Welfare), totalmente a carico della società e non rimborsabile, diversificato fra tre diverse categorie omogenee, la prima composta dagli amministratori, la seconda dai dipendenti con una RAL fino a 35.000 e la terza da quelli con una RAL maggiore di 35.000 .

La questione interpretativa sollevata dall’istante riguarda la possibilità di:

– applicare il regime di esclusione da imposizione sul reddito di lavoro dipendente previsto dall’art. 51, comma 2, lettera f) del Tuir in relazione all’utilizzazione di servizi con specifica finalità ricreativa riconosciuti dalla società in conformità a disposizioni di regolamento aziendale;

– beneficiare della piena deducibilità del suddetto costo dal reddito d’impresa quale spesa relativa a servizi utilizzabili dalla generalità o categorie di dipendenti, senza incorrere nella limitazione del 5 per mille dell’ammontare delle spese per prestazioni di lavoro dipendente risultante dalla dichiarazione dei redditi come previsto dall’art. 100, comma 1 del Tuir.

L’Agenzia delle entrate innanzitutto sgombra definitivamente il campo dai dubbi circa l’inclusione degli amministratori di società che percepiscono redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente tra i destinatari dei benefici fiscali, analogamente ai lavoratori dipendenti.

Chiarisce poi che i servizi offerti dal Piano Welfare, rientrando nella finalità ricreativa di cui all’art. 100, comma 1 del Tuir, risultano pacificamente esclusi del reddito di lavoro dipendente ai sensi dell’art. 51, comma 2, lett. f).

Precisa infine che «in relazione all’altro requisito concernente l’offerta delle opere e servizi che deve essere rivolta alla «generalità» o a «categorie di dipendenti» il legislatore, a prescindere dall’utilizzo dell’espressione «alla generalità di dipendenti» ovvero a «categorie di dipendenti», non riconosce l’applicazione delle disposizioni elencate nel comma 2 dell’art. 51 del Tuir, ogni qual volta le somme o servizi ivi indicati siano rivolti «ad personam» ovvero costituiscano dei vantaggi solo per alcuni e ben individuati lavoratori. Nel caso di specie … il credito Welfare è riconosciuto sia ai lavoratori dipendenti che agli amministratori, ancorché sulla base di presupposti distinti: l’ammontare della RAL per i primi, la partecipazione al cda per i secondi. Tale diverso criterio si ritiene non faccia venir meno la circostanza che l’offerta sia rivolta alla «generalità di dipendenti» e che, pertanto, possa trovare applicazione la previsione di esclusione dal reddito di lavoro dipendente di cui all’art. 51, comma 2, lett. f), del Tuir.»

Ricapitolando: 1) una categoria può ben essere composta dai componenti del Consiglio di Amministrazione; 2) il criterio della misura della RAL può essere utilizzato, tra i tanti, per diversificare le categorie di dipendenti; 3) l’individuazione di categorie sulla base di presupposti diversi tra loro non costituisce di per sé motivo ostativo all’applicazione delle fattispecie esenti di cui all’art. 51, comma 2.

Da notare che è «irrilevante, ai fini della non concorrenza al reddito di lavoro dipendente, la circostanza che i servizi siano corrisposti per iniziativa unilaterale del datore di lavoro o in base alla contrattazione. In entrambe le ipotesi, infatti, e nel rispetto delle altre condizioni …, i servizi aventi finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto non concorrono alla formazione del reddito del dipendente.»

Viceversa, «la causa che ha dato luogo al Piano Welfare risulterà, invece, rilevante ai fini della deducibilità dei relativi costi sostenuti dal datore di lavoro. Infatti, ai sensi dell’art. 100, comma 1, del Tuir: le spese relative a opere o servizi utilizzabili dalla generalità o categorie di dipendenti volontariamente sostenute per specifiche finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto, sono deducibili per un ammontare complessivo non superiore al 5 per mille dell’ammontare delle spese per prestazioni di lavoro dipendente risultante dalla dichiarazione dei redditi»; laddove invece l’erogazione di tali opere e servizi, utilizzabili dalla generalità o categorie di dipendenti, sia frutto di contrattazione collettiva, nazionale o territoriale, o di accordo interconfederale o, infine, di regolamento aziendale, ai sensi dell’art. 95 del Tuir i relativi costi risulteranno deducibili ai fini Ires».

Sul contenuto del regolamento aziendale – inteso quale atto unilaterale del datore di lavoro non derivante da una negoziazione sindacale, che stabilisca l’utilizzazione di opere e servizi, la circolare n. 28/E/2016 dell’Agenzia delle entrate ha sottolineato che lo stesso deve comunque configurare «l’adempimento di un obbligo negoziale». Precisazione questa che ha sollevato non pochi dubbi tra gli addetti ai lavori, considerando che sebbene non siano mancate interpretazioni giurisprudenziali volte a identificare il regolamento aziendale con un contratto collettivo, è indubbio che esso rimanga espressione della libera volontà del datore di lavoro e non consegua ad alcun tipo di vincolo negoziale.

Ebbene, il regolamento sottoposto dalla società istante viene cassato dall’Agenzia delle entrate perché nello stesso «non si evincono statuizioni volte a configurare l’adempimento di un obbligo negoziale. A ulteriore conforto di tale conclusione, le norme finali del Regolamento stabiliscono che il datore di lavoro «avrà facoltà di cessare unilateralmente e discrezionalmente l’implementazione e l’efficacia del Piano Welfare al termine di ciascun anno, senza che da questo possa derivare alcun successivo obbligo nei confronti dei collaboratori, né far sorgere diritti di qualsiasi natura in capo a questi ultimi. Inoltre qualora norme di legge o variazioni sostanziali nel costo per le forniture dei servizi dovessero significativamente modificare lo scenario in base al quale è stato istituito il Piano Welfare ovvero gli aspetti fiscali a esso inerenti, è facoltà del datore interrompere in qualsiasi momento l’applicazione del Piano Welfare o di procedere a una sua revisione».

Dunque – secondo l’Agenzia – il regolamento aziendale può essere fonte di diritti dei dipendenti e di corrispondenti obblighi giuridici a carico del datore di lavoro solo se non consente, per un determinato periodo di tempo, la possibilità al datore stesso di modificarli. In tal caso, il lavoratore, aderendo al Piano Welfare, acquista la titolarità di un diritto soggettivo al quale è correlato l’obbligo di adempimento del datore di lavoro, con tutte le conseguenze di legge.

Risoluzione n. 67/E del 9 giugno 2017: compilazione delle dichiarazioni reddituali in caso di welfarizzazione del premio di risultato in assenza dei requisiti

Con la Risoluzione n. 67/E del 9 giugno 2017 l’Agenzia delle entrate chiarisce operativamente alcuni aspetti già in parte affrontati con la circolare n. 28/E/2016, nel caso in cui il dipendente scelga di convertire il premio di risultato fiscalmente «detassato» al 10% in strumenti di Welfare interamente defiscalizzati.

In particolare, se il datore di lavoro ha applicato la detassazione in mancanza dei presupposti soggettivi (dipendenti con reddito di lavoro dipendente superiore a 80.000 annui e/o su somme superiori a 3.000,00 ) e/o oggettivi (somme non realmente correlate a incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione obiettivamente misurabili e verificabili), con la dichiarazione dei redditi modello 730 o Unico il dipendente o il suo intermediario fiscale devono provvedere ad assoggettare a tassazione ordinaria non solo le somme erogate a titolo di premio di risultato, bensì anche quelle eventualmente convertite in servizi di Welfare.

E ciò in spregio al trattamento fiscale agevolato che la normativa (art. 51, commi 2 e 3 del Tuir) riserva a questi ultimi.

Ad esempio, se un dipendente nell’anno 2017 ha scelto di convertire 2.500,00 di premio di risultato sui 3.000,00 spettanti in rimborsi spese scolastiche del figlio (che, in base all’art. 51, comma 2, lett f-bis, sono interamente defiscalizzate), un eventuale errore circa l’esistenza dei presupposti per accedere alla detassazione del premio di risultato imporrebbe al dipendente o al suo intermediario, in sede dichiarativa, di assoggettare a tassazione ordinaria sia i 500,00 di premio di risultato residuo, sia a riservare la stessa sorte ai rimborsi spese scolastiche, che di conseguenza andrebbero assoggettati anche a contributi Inps con l’applicazione delle relative sanzioni.

Visti i possibili rischi della welfarizzazione del premio di risultato, i datori di lavoro potrebbero valutare di scegliere la strada suggerita dalla stessa Agenzia delle entrate con la circolare n. 28/E/2016, cioè tenere distinti premio di risultato e Welfare premiale. In quest’ultimo caso – specifica l’Agenzia – l’obbligazione del datore di lavoro ha a oggetto sin dal suo nascere l’erogazione di beni e servizi, potendo essere adempiuta solo con tale modalità, così che i beni e servizi attribuiti ai dipendenti, anche a titolo premiale, non concorrano alla formazione del reddito di lavoro dipendente qualora rientrino nelle fattispecie defiscalizzate previste dei commi 2 e 3 dell’art. 51.

La risposta a interpello n. 904-791/2017 della Dre Lombardia: Welfare premiale e incentivante a carattere individuale

Con la risposta a interpello n. 904-791/2017, l’Agenzia delle entrate dà il via libera ai Piani Welfare a carattere premiale e incentivante, anche a livello individuale, senza rinunciare ai benefici fiscali.

L’interpello è stato presentato da una società di formazione e servizi al lavoro che ha chiesto se la struttura del proprio Piano Welfare, di durata biennale, non fosse in contrasto con le finalità agevolative dei commi 2 e 3 dell’art. 51 del Tuir.

L’istante ha infatti spiegato che ha deciso di varare un Piano Welfare a carattere premiale e incentivante, rivolto a tutti i dipendenti, mediante il ricorso e la messa a disposizione di una specifica piattaforma web personalizzabile, che consente a tutti loro indistintamente la fruizione integrata e flessibile del basket di servizi previsti dal Piano stesso secondo le proprie necessità ed esigenze.

Il Piano prevede l’assegnazione di un budget di spesa «figurativo» (credito Welfare) nella misura di 1.500,00 annui uguale, in partenza, per ciascun dipendente.

Il plafond stanziato è totalmente a carico della società e non rimborsabile.

Per il primo anno di vigenza del Piano, la società istante ritiene di assegnare a ciascun dipendente il 100% del credito Welfare di 1.500,00 annui al raggiungimento del 100% di un determinato obiettivo individuale, proporzionalmente ridotto in caso di conseguimento di un risultato individuale inferiore.

Per il secondo anno di vigenza del Piano, invece, la società istante intende assegnare a ciascun dipendente il 100% del credito Welfare di 1.500,00 annui al raggiungimento del 100% di un determinato obiettivo aziendale. In mancanza, entro uno scarto massimo al ribasso del 10%, il credito Welfare di ciascuno è rapportato a una percentuale della retribuzione annua lorda (RAL) individuale (3%).

L’Agenzia delle entrate accoglie la tesi dell’istante in quanto la non concorrenza al reddito di lavoro dipendente è subordinata all’unica condizione che i beni e servizi siano offerti alla generalità o a categorie di dipendenti e non anche al vincolo dell’assegnazione del medesimo budget «figurativo» di spesa a ogni dipendente.

Grazie a questa importante apertura da parte dell’Agenzia delle entrate, il Welfare premiale si ritaglia uno spazio ancora più rilevante nell’ambito della produttività del lavoro.

È stata la stessa Agenzia delle entrate che, con la circolare n. 28/E/2016, nel trattare di «beni e servizi (benefit) erogati in sostituzione di premi» (di risultato ndr) ha per la prima volta introdotto la possibilità, o per meglio dire l’opportunità, che l’obbligazione datoriale abbia a oggetto sin dal suo nascere l’erogazione di beni e servizi attribuiti ai lavoratori anche a titolo premiale. Dopo un primo salto di qualità grazie alla legge di Stabilità 2016 che aveva segnato il passaggio dal c.d. «Welfare volontario» al cd «Welfare contrattuale», ecco pochi mesi dopo il via libera anche al Welfare premiale quale accreditata alternativa al premio di risultato detassato.

Restava tuttavia difficile «tradurre» operativamente l’apertura dell’Agenzia delle entrate. Infatti, al «classico» modo di fare Welfare basato su pochi e individuati beni o servizi offerti alla generalità o categorie di dipendenti, si stava affiancando sempre più prepotentemente quello proposto da specifiche piattaforme web che consentono ai dipendenti, destinatari di un budget figurativo di spesa (credito Welfare), la fruizione integrata e flessibile di più beni e servizi secondo le proprie necessità ed esigenze; modalità, quest’ultima, che, avallata dalla stessa Agenzia delle entrate, ha spinto le aziende a interrogarsi sulla possibilità di diversificare il credito Welfare tra dipendenti, o quantomeno tra categorie di dipendenti, in ottica premiale e incentivante.

Sul punto, con precedente risposta a interpello n. 904-1533/2016, l’Agenzia ha evidenziato che risulta necessario, al fine di permettere una fruizione omogenea dell’offerta alla generalità o categorie di dipendenti, che il credito Welfare, seppur differenziato, abbia quanto meno la medesima consistenza all’interno della singola categoria considerata. Nella fattispecie rappresentata con risposta n. 904-791/2017 l’Agenzia è invece scesa più nel dettaglio, affermando che i benefici fiscali non vengono meno qualora il credito Welfare, di uguale valore di partenza nell’ambito della stessa categoria omogenea considerata, sia poi diversificato tra i dipendenti all’interno di essa in funzione del grado di raggiungimento di determinati obiettivi individuali.

Il Welfare premiale presenta minori vincoli, più flessibilità e soprattutto maggiore convenienza economica rispetto al «classico» premio di risultato.

Minori vincoli, in quanto i benefici fiscali del premio di risultato operano entro determinati limiti di valore economico e di reddito del beneficiario, mentre invece il Welfare premiale no. Inoltre, il premio di risultato deve essere variabile in quanto correlato a specifici obiettivi il cui raggiungimento risulta incerto; deve essere misurabile tramite parametri oggettivi; deve essere incrementale perché il risultato deve rappresentare un miglioramento rispetto alla situazione di partenza. Mentre il Welfare premiale può genericamente essere legato a obiettivi individuali.

Più flessibilità, dal momento che a differenza del premio di risultato il Welfare premiale può essere introdotto anche mediante uno strumento semplice come il regolamento aziendale e non necessariamente attraverso una complessa contrattazione collettiva aziendale.

Maggior convenienza, perché i vantaggi contributivi e fiscali del Welfare premiale sono di gran lunga superiori a quelli del premio di risultato anche se – come specificato nella circolare n. 28/E/2016 dell’Agenzia delle entrate – i benefit non possono mai sostituire altre erogazioni in denaro, salvo gli stessi premi di risultato, altrimenti devono essere a loro volta tassati.

Anche la c.d. «spendibilità» del Welfare, la cui limitazione ha spesso costituito la principale critica e ostacolo alla sua piena diffusione, sta vertiginosamente crescendo con l’aumentata sensibilità di tutte le parti coinvolte e con il miglioramento della comunicazione nei confronti dei dipendenti.

La risposta a interpello n. 904-603/2017 della Dre Lombardia: indetraibilità dell’Iva sui servizi Welfare

L’Agenzia delle entrate, con risposta a interpello n. 904-603/2017 del 20 luglio 2017, ha negato la possibilità di detrarre l’Iva versata per l’acquisto dell’abbonamento alla pay-tv che la società istante, nell’ambito di un Piano Welfare sostenuto da regolamento aziendale, aveva deciso di mettere a disposizione di categorie di lavoratori.

L’Agenzia sostiene infatti che il diritto alla detrazione Iva spetti alle condizioni che seguono, a suo giudizio non rispettate nel caso trattato: 1) l’acquisto dei beni e dei servizi deve essere inerente all’attività economica svolta dal soggetto passivo; 2) i beni e i servizi acquistati devono essere afferenti a operazioni imponibili o a esse assimilate dalla legge ai fini dell’esercizio della detrazione; 3) deve sussistere un nesso diretto e immediato tra le spese collegate alla prestazioni a monte e il complesso delle attività economiche del soggetto d’imposta, essendo la detraibilità connessa al trattamento delle operazioni effettuate a valle cui gli acquisti si riferiscono.

A parziale compensazione occorre tuttavia sottolineare che l’Iva non detratta costituisce onere accessorio di diretta imputazione al costo del servizio cui si riferisce e pertanto risulta senz’altro deducibile dal reddito d’impresa ai sensi dell’art. 110 del Tuir.

Grazie a quest’ultimo chiarimento si completa il quadro del trattamento ai fini delle imposte dirette e dell’Iva delle spese aziendali relative a servizi con finalità ricreative utilizzabili dalla generalità o categorie di dipendenti, che a seguire si riassume: a) se le spese sono sostenute volontariamente dal datore di lavoro, le stesse sono deducibili dal reddito d’impresa per un importo complessivo non superiore al 5 per mille dell’ammontare delle spese per prestazioni di lavoro dipendente risultante dalla dichiarazione dei redditi, ai sensi dell’art. 100 del Tuir; b) se le spese sono sostenute in conformità a disposizioni di contratto o di accordo o di regolamento aziendale la deducibilità dal reddito d’impresa è invece al 100%; c) in entrambi i casi sopra descritti l’Iva sui servizi acquistati dal datore di lavoro e offerti ai dipendenti è indetraibile da quella dovuta sulle vendite e di conseguenza, divenendo un onere accessorio di diretta imputazione al costo del servizio cui si riferisce, risulta deducibile dal reddito d’impresa.1 La tassazione agevolata (imposta sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali del 10%) viene estesa anche alle somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa.

2 Per i contratti collettivi aziendali afferenti il premio di risultato sottoscritti dal 25 aprile 2017, il beneficio fiscale sul tetto di 4.000,00 annui valido qualora i lavoratori siano coinvolti pariteticamente nell’organizzazione del lavoro è stato abolito e sostituito da un’agevolazione contributiva (riduzione di 20 punti percentuali dell’aliquota contributiva carico azienda e azzeramento del carico dipendente) fino a un tetto imponibile di 800,00 annui
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