di Giuseppe Ripa e Alessandro Lattanzi

Massima attenzione per commercialisti, componenti del collegio sindacale e, soprattutto, per gli amministratori. Attenti dunque a rifinanziarsi se si è in stato di crisi. Attenti a scontare ricevute bancarie anomale. Attenzione pure a contabilizzazioni eccessivamente avanzate. Insomma: tutte le operazioni che potrebbero rilevarsi poi pericolose e portatrici di dissesto fallimentare possono, in una visione sistemica e strutturale, far ipotizzare la commissione del reato previsto e punito dal punto 2) del comma 2 dell’art. 223 della legge fallimentare. È quanto insegna la sentenza della Cassazione n. 52433 del 10 agosto 2017. Lo si è detto in merito alla responsabilità del professionista ( si veda ItaliaOggi del 23 ottobre 2017). Ma qui, con la sentenza su richiamata, si va proprio sul sottile e sul filo del rasoio interpretativo per le conseguenze che ne vengono poi tratte. L’azione causale è data dall’attuazione di operazioni gestionali di vario tipo (mutuo ipotecario intempestivo, sconto di ricevute bancarie anomale, contabilizzazioni di costi non sopportati, ecc.). Tutti fatti i quali, nel loro insieme, sono stati causa del successivo fallimento. Infatti la fattispecie spesso evocata di cui al punto 2) del secondo comma dell’art, 232 l.f. tratta di due fattispecie, apparentemente legate, entrambe connotate dal dolo. Nello specifico, nella pima ipotesi i soggetti ivi indicati, oltre agli amministratori, anche i sindaci, «hanno cagionato con dolo il fallimento» quale approdo finale della loro gestione. Nella seconda invece con «operazioni dolose» è stato cagionato il fallimento. La sentenza è chiara: la fattispecie di fallimento determinato da operazioni dolose si distingue dalle ipotesi generali di bancarotta fraudolenta patrimoniale, di cui al combinato disposto degli artt. 223, comma primo, e 216, comma prima n. 1), in quanto, «la nozione di operazione postula una serie di modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito divisato». Dunque: abusi di gestione o eccessi commessi, ovvero omessi dagli amministratori e silenziati o trascurati dai sindaci, i quali, anche nel loro insieme, possono risultare dannosi e dolosamente preordinati, in modo non specifico benché generico, per la società, tanto da portarla direttamente al fallimento, possono essere assunti quali indici rilevatori di una attività non allineata degli amministratori e dei sindaci al buon andamento societario ed alla sua buona gestione. Al fine di evitare tali problematiche si tratterebbe di attuare una politica invasiva o frenante per ogni tipologia di operazione, la quale, strutturalmente collegata ad altre attività, in un momento di particolare vita societaria, potrebbe essere poi la causa del fallimento, o meglio, l’effetto scatenante. Anche la contrazione di un semplice mutuo, attuato in un momento nel quale l’indice di liquidità non è soddisfacente o altro, ben potrebbe essere assunta come operazione pericolosa, giacché portatrice di ulteriore indebitamento societario. Tanto è vero che la sentenza in commento ne richiama un’altra con la quale è stato censurato un protratto, sistematico ed esteso inadempimento di obbligazioni contributive che, aumentando, ingiustificatamente l’esposizione nei confronti egli enti previdenziali, rendeva prevedibile il conseguente dissesto della società. Se si pensa a quanto sia frequente il sistematico mancato pagamento delle imposte dovute o dell’Iva, al pari dei fornitori e come nel frattempo si continua a gestire l’azienda come se nulla fosse e con il beneplacito di tutti, non c’è da dormire sonni tranquilli.
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