di Paola Valentini

Istituita dalla legge di Stabilità per il 2013 (legge 24 dicembre 2012, numero 228) e in vigore dal marzo dello stesso anno, l’imposta sulle transazioni finanziarie, battezzata Tobin Tax ha prodotto fino a oggi un gettito per le casse statali ben differente da quanto sperato. Se le stime parlavano di una cifra attesa di circa 1 miliardo di euro all’anno, nel 2013 l’incasso è stato di soli 260 milioni, nel 2014 di 401 milioni, nel 2015 di 470 milioni e le stime per il 2016 parlano di 450 milioni (vedere tabella). «Numeri molto lontani dunque da quanto ipotizzato, con l’aggravante, peraltro, che recenti stime del Dipartimento di scienze economiche dell’Università di Bologna indicano come i volumi della Borsa italiana nei 12 mesi successivi all’introduzione della tassa siano scesi di quasi il 30% rispetto al periodo immediatamente precedente la sua introduzione e il trend è rimasto immutato negli anni successivi», afferma Roberto Lenzi, avvocato patrimonialista dello studio Lenzi e Associati di Milano. Anzi, l’effetto è stato una sorta di autogol per il mercato italiano, che già soffre di una scarsa attività degli investitori, soprattutto quelli internazionali. «C’è stata una riduzione della presenza di investitori-negoziatori sulla piazza borsistica italiana a tutto vantaggio di altre piazze finanziarie prive di questo balzello», prosegue Lenzi.

La tassa prende il nome da James Tobin, economista e premio Nobel americano che la propose nel 1972 per arginare la forte volatilità dell’attività speculativa derivante dalle operazioni cosiddette ad alta frequenza sul mercato valutario. Sul mercato domestico, però, la Tobin Tax all’italiana, non è certo stata strutturata per colpire la speculazione (nel 2013 erano ancora ben presenti le forti ondate di vendite sui Btp dell’autunno 2011). Bensì, più prosaicamente, la tassa è stata introdotta per fare cassa, trascurando i suoi potenziali effetti negativi che poi, come detto, si sono manifestati. «L’imposta, infatti, sotto un primo profilo si applica con aliquote differenziate, a seconda del sottostante negoziato, solo su alcune transazioni finanziarie, lasciandone escluse altre, vere protagoniste della speculazione che nelle intenzioni si era detto di volere colpire. È quindi un’imposta discriminatoria», avverte Lenzi, che cita come esempio di contratti esenti le operazioni che hanno per oggetto i derivati sui titoli di Stato. «Sotto un altro profilo, il tributo si presenta con un meccanismo che non va a colpire gli utili fatti con le transazioni (ad esempio, l’aliquota sul capital gain, ndr) bensì l’acquisto stesso, con evidente penalizzazione per coloro che destinano parte delle proprie entrate al risparmio e per le imprese stesse potenziali beneficiarie di questo risparmio. Possiamo parlare, dunque di un’ulteriore forma di patrimoniale indiretta», dice Lenzi.
A tutti gli effetti, dunque, si tratta di un’imposta che non investe tutti gli operatori di borsa, specialmente quelli che operano con strumenti derivati o con sistemi quantitativi ad altra frequenza sul mercato valutario o sui titoli di Stato, ma colpisce soprattutto l’investitore classico, che punta al guadagno attraverso dividendi e capital gain. «È anche un’imposta punitiva nei confronti dei piccoli e medi risparmiatori che, a differenza degli operatori professionali, hanno più difficoltà a delocalizzare le loro transazioni. L’imposta presenta, inoltre, i connotati dell’autolesionismo», afferma Lenzi. Perché mai farla in Italia seguita dalla Francia, dove, però, ha connotazioni tali da renderla assai aggirabile, quando in altri Paesi tale balzello ancora non esiste? Bisogna peraltro ricordare l’esperienza svedese. «La Svezia sperimentò una tassa simile nel 1984, inizialmente su stock option e compravendite azionarie, poi estesa anche alle obbligazioni. Come effetto si verificò un crollo dei volumi negoziati e le entrate fiscali furono inferiori al previsto. Il saldo netto fu comunque negativo, tanto che nel 1991 fu abolita», conclude Lenzi.

Malgrado ciò, la tentazione di introdurla per tutta l’Ue resta forte dato che gli Stati hanno necessità di recuperare risorse per sostenere debiti pubblici che restano alti. Se la tassa italiana è già in vigore, la Tobin Tax europea è in divenire con tempi che sembrano dilatarsi perché si temono fuga di capitali, ricorsi e gettito irrisorio. Un mese fa c’è stato l’ennesimo rinvio: i ministri economici Ue dei Paesi della cosiddetta cooperazione rafforzata riuniti per deliberare sulla Tobin Tax non sono riusciti a partorire un testo che preveda l’introduzione della tassa. Si è deciso allora di incaricare i tecnici della Commissione Ue di redigere una proposta che tenga conto delle osservazioni presentate finora. È dal 14 febbraio 2013 che l’Ue ha adottato una proposta di direttiva sulla tassa sulle transazioni finanziarie senza però arrivare mai a qualcosa di definitivo. «Nonostante non manchino i contrari a tale tributo sulla base di argomentazioni che fanno leva sulla potenziale riduzione delle transazioni, non è arduo pensare che un meccanismo di questo genere per funzionare dovrebbe riguardare tutti gli Stati interessati e ogni tipologia di strumento finanziario. Considerazioni che prescindono, comunque, dall’opportunità di varare un’ulteriore imposta», conclude Lenzi.
In passato anche il presidente della Bce Mario Draghi ha espresso perplessità su una Tobin Tax applicata solo in alcune aree. In un’audizione al Parlamento Ue nel 2012, quando l’Europa valutava con più decisione la Tobin Tax, Draghi ha osservato che «per essere effettiva, una tassa sulle transazioni finanziarie deve essere applicata in tutti i Paesi, altrimenti ci sarebbe uno spostamento di attività verso altri Paesi o, peggio ancora, verso il settore dello shadow banking», con il rischio di «aumentare la volatilità e i guadagni dalla speculazione», oltre che di allontanare gli investitori dall’area euro. (riproduzione riservata)
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