A togliere dai guai Volkswagen, Deutsche Bank o Rcs sono state chiamate tre donne. Gli studi dimostrano che la diversità di genere ai vertici aziendali porta a migliori risultati. Ecco chi sono le prime linee rosa nelle aziende in giro per il mondo

di Stefania Peveraro

Questo scorcio finale di 2015 rappresenta una fase di particolare attività per le donne top manager. Sarà per una congiunzione astrale favorevole o sarà che sui mercati c’è una concentrazione di situazioni critiche delle quali solo le donne hanno il coraggio di farsi carico.

Sta di fatto che nelle ultime settimane diverse donne sono balzate agli onori delle cronache finanziarie per aver assunto incarichi di rilievo in grandi aziende o banche in forte difficoltà. È il caso per esempio delle tedesche Volkswagen e Deutsche Bank , alle prese l’una con le conseguenze dello scandalo Dieselgate e l’altra con una maxi-perdita. Oppure dell’italiana Rcs , che deve fronteggiare un debito monstre e risultati in prolungata perdita.

Come si spiega questa riscossa rosa? Difficile dirlo. Di sicuro gli studi condotti sul tema indicano che la diversità di genere in azienda fa bene ai conti. Ed è rilevante che il presidente della Consob Giuseppe Vegas che pochi giorni fa, in occasione di un incontro promosso a Piazza Affari dalla Fondazione Bellisario, abbia dichiarato a chiare lettere che bisognerebbe introdurre le quote rosa anche nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali delle società non quotate, in quanto esiste il rischio che l’obbligo per le sole quotate possa rappresentate un ulteriore disincentivo al collocamento in borsa delle aziende.

A margine dello stesso incontro, inoltre, l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo , Carlo Messina, ha anticipato che le donne nel nuovo consiglio di amministrazione del gruppo bancario (che sarà eletto la prossima primavera dall’assemblea, che segnerà anche il passaggio dal sistema duale alla governance monistica di tipo anglosassone) saranno ben sette su 19 consiglieri, ossia circa il 30%.

 

Tornando alle nomine di donne con compiti emergenziali, di salvataggio o quasi, Christine Hohmann-Dennhardt è la top manager chiamata a risollevare le sorti della Volkswagen. Da gennaio lascerà il suo posto nel consiglio di gestione della Daimler per entrare (prima donna nella storia della casa automobilistica tedesca) in quello di VW, da cui dovrà gestire la risposta di Wolfsburg allo scandalo delle emissioni. Ex giudice dell’Alta Corte tedesca, conosce bene la materia: quando venne ingaggiata dalla Daimler , nel 2011, la società era stata appena coinvolta in un grande scandalo di corruzione internazionale e messa sotto inchiesta da parte delle autorità statunitensi.

Quanto a Sylvie Matherat, ex manager alla banca centrale francese appena nominata chief regulatory officer diDeutsche Bank  (affiancata da Nadine Faruque, responsabile globale della compliance), dovrà occuparsi di gestire i danni reputazionali e le multe miliardarie comminate all’istituto nell’ambito dell’inchiesta sullo scandalo Libor.

L’elenco delle donne top manager o con ruoli di estremo rilievo all’estero è lungo.

Per esempio, negli Usa dal gennaio 2014 Mary Barra è ceo di General Motors, mentre in corsa per le primarie repubblicane c’è Carly Fiorina, che è stata ceo di Hewlett Packard dal 1999 al 2005) e che nella corsa alla Casa Bianca potrebbe trovarsi a sfidare un’altra donna, Hillary Clinton. Sempre negli Usa, c’è poi una donna ovviamente anche al vertice della Federal Reserve: quella Janet Yellen che in questa fase ha addosso gli occhi dei mercati internazionali, interessati a capire quando la banca centrale americana tornerà a una politica monetaria restrittiva alzando i tassi di interesse sul dollaro.

Nel Regno Unito nei giorni scorsi sono state presentate le raccomandazioni formulate da uno speciale comitato consultivo (guidato dal ceo di Virgin Money Jayne-Anne Gadhia e voluto dal segretario economico del Tesoro, Harriet Baldwin) istituito per indagare sulle difficoltà di emergere evidenziate dalle donne nell’industria finanziaria. Gadhia propone che le società di servizi finanziari rendano note pubblicamente le loro politiche di genere e che i bonus dei top manager siano collegati alla capacità di centrare gli obiettivi fissati in termini di numero di donne nominate senior manager in società.

Sempre all’estero, sono donne a guidare ormai da tempo colossi come Pepsi Co (l’originaria indiana Indra Nooyi), Xerox (l’afroamericana Ursula Burns), Yahoo! (Marissa Mayer, che venne nominata quando era incinta), Ibm (Ginny Rometty), HP (Meg Whitman), Petrobras (Marias das Gracas Foster) o easyJet (Carolyn Mccall), mentre il colosso chimico DuPont è stato guidato dal 2009 sino a pochi giorni fa Ellen  Kullman, che ha dato le dimissioni a sorpresa dopo aver vinto una lunga battaglia contro il finanziere Nelson Peltz e il suo Trian Fund Management.

Al vertice di grandi aziende internazionali ci sono poi anche alcune donne italiane. Per esempio, vicepresidente esecutivo del big delle farmacie Wallgreens Boots Alliance è Ornella Barra, mentre vicepresidente e general manager di Whirlpool China è Barbara Philipp-Borra.

E in Italia come vanno le cose? L’ultima importante nomina in ordine di tempo, come si accennava, è quella di Laura Cioli alla guida di Rcs Mediagroup  come amministratore delegato e direttore generale. Il compito si presenta difficile, dopo il tentativo dell’ex amministratore delegato Pietro Scott Jovane di risollevare le sorti del gruppo editoriale milanese. Nonostante la ristrutturazione, avviata nel 2013 con l’aumento di capitale da 400 milioni e proseguita con la vendita di Rcs  Libri (127,5 milioni di euro d’incasso) e del 44,5% del gruppo Finelco (22 milioni), su Rcs  pesa ancora un debito di 526 milioni di euro nei confronti delle banche. Toccherà dunque a Cioli provare a tagliare l’esposizione, oltre che rilanciare il business. La manager ha lasciato il ruolo di ceo di CartaSi dopo il passaggio del controllo della holding Icbpi alla cordata di fondi di private equità Advent International, Bain Capital e Clessidra. Attualmente Cioli, che in passato è stata direttore generale di Sky Italia, siede anche nei consigli di amministrazione di Telecom, Wdf  e Impregilo .

Va detto che in Italia nel settore editoriale la presenza di donne ai vertici aziendali non rappresenta una rarità. Per esempio, l’Espresso dal gennaio 2009 è guidato dall’amministratore delegato e direttore generale Monica Mondardini, che dal 2013 è anche ad della holding Cir . Mondardini ha un passato come top manager di Hachette, ceo di Europe Assistance e ad di Generali  Spagna. Da quest’anno è anche presidente di Sogefi  (altra controllata di Cir ) ed è amministratore indipendente di Crédit Agricole, Atlantia  e Trevi Finanziaria Industriale.

Sempre una donna, Donatella Treu, è dal marzo 2010 alla guida del gruppo editoriale Il Sole 24 Ore. Infine Marinella Soldi è amministratore delegato Italia e direttore generale di Discovery Networks Sud Europa.

Sul fronte delle donne manager e imprenditrici, cioè che guidano società di cui le famiglie sono azioniste, vanno segnalate Marina Berlusconi, alla guida di Fininvest e Mondadori , Diana Bracco, a capo dell’omonima azienda farmaceutica.

Tra le manager «pure» va citata invece Marina Natale, che da inizio ottobre è diventata vicedirettore generale diUnicredit con responsabilità per l’area strategy &finance, dopo essere stata direttore finanziario della banca di piazza Gae Aulenti dal 2009. Natale è anche membro dell’executive management committee del gruppo creditizio guidato dal chief executive officer Federico Ghizzoni.

Stando sul fronte bancario, Patrizia Micucci lo scorso settembre è entrata a far parte del comitato di direzione di gruppo di Société Générale , che a livello internazionale ha la responsabilità di discutere le linee strategiche e gli aspetti più rilevanti per il colosso assicurativo francese. Micucci è stata anche nominata country head per l’Italia della compagnia transalpina, ruolo che si va ad aggiungere a quello di chief country officer e head of corporate & investment banking per l’Italia.

Alessandra Perrazzelli dal settembre 2013 è invece country manager di Barclays nel nostro Paese (dopo aver ricoperto il ruolo di head of international regulatory affairs in Intesa Sanpaolo ), mentre Claudia Parzani è l’unica partner donna dello studio legale internazionale Linklaters in Italia, dove è responsabile della practice di capital markets.

Anche a capo del colosso investigativo Kroll in Italia c’è una donna, che è pure responsabile del mercato di Grecia e Spagna. Si tratta di Marianna Vintiadis, italiana di origini greche; è esperta in operazioni di intelligence e di contrasto al cyber crime.

È una donna anche il cacciatore di teste italiano più potente nel settore finanziario. È Maurizia Villa, a capo di Korn&Ferry Italia dal 2010, dopo aver lavorato in Heindrick&Struggles per 15 anni, di cui dieci nel ruolo di amministratore delegato. Villa ha per esempio gestito di recente la selezione che ha portato Andrea Munari a lasciare il ruolo di chief executive officer del Credito Fondiario per assumere quello di amministratore delegato di Bnp Paribas  Italia.

Quanto al mondo delle associazioni, va ricordata Anna Gervasoni, fondatrice di Aifi, l’associazione che oggi rappresenta gli interessi di fondi di private equity, venture capital e private debt e che negli ultimi tempi, con il recepimento della direttiva europea sui gestori alternativi (Aifmd), si è impegnata anche in attività di lobbying nei confronti del governo e della Banca d’Italia.

A proposito di governo, un discorso a parte merita Maria Cannata; laureata in matematica, da anni è a capo del Dipartimento del Tesoro con la responsabilità della gestione del debito pubblico, un ruolo chiave per la politica economica dell’Italia, visto che è suo il compito di emettere titoli di Stato e gestirne le scadenze in modo da minimizzare il costo del finanziamento per le casse pubbliche.

Fatti tutti questi esempi, è naturale porsi una semplice domanda: che cosa cambia in un’azienda se alla guida operativa c’è una donna? È meglio, è peggio o non cambia niente? Case di consulenza e banche d’affari si sono occupate più volte del tema e i risultati aggregati sono sempre gli stessi e vanno a vantaggio del genere femminile. Il Credit Suisse ha redatto un report basato su un’indagine che ha coinvolto ben 28 mila senior manager donna di oltre 3 mila aziende in 40 diversi Paesi nel mondo. Il report dimostra che una maggiore diversità di genere nei board e nei ruoli chiave di top management è associata a più alti roe (return on equity), più alti rapporti tra prezzo e book value, migliori performance dei titoli in borsa e maggiori payout dei dividendi. Più nel dettaglio, le aziende che contano più di una donna nei consigli di amministrazione registrano un roe mediamente del 3,7% più alto rispetto a quelle che non hanno zero o una sola donna in cda. Nel 2013 il roe medio delle aziende con almeno una donna nel cda è stato del 12,2% contro il 10,1% medio delle aziende senza componenti femminili in consiglio, mentre se si prende in considerazione un arco di nove anno il confronto evidenzia un 14,1% contro un 11,2%. Quanto al rapporto tra prezzo e valore di libro, esso nel 2013 è stato di 2,4 per le aziende con una rappresentanza femminile in cda l’1,8 volte delle altre; nove anni il confronto termina con un rapporto di 2,3 contro 1,8. I risultati sono poi ancora più eclatanti se si considerano soltanto le aziende in cui la rappresentanza femminile nei ruoli di senior management è pari almeno al 15%: in questi casi nel 2013 il roe è stato in media del 14,7% contro il 9,7% delle aziende dove meno del 10% dei ruoli di senior management sono ricoperti da donne. E se si guarda al tipo di ruolo ricoperto, le aziende che hanno donne in almeno il 10% dei ruoli di ceo e di senior manager responsabili delle operation il roe medio è stato del 15,2% contro l’11,9% delle aziende dove la presenza è inferiore al 5%.

Uno studio McKinsey arriva a risultati analoghi, con in più il fatto di allargare l’analisi alla diversità culturale oltre che a quella di genere. In particolare, McKinsey indica che le aziende che si trovano nel quartile più alto per diversità di genere e etnia hanno una il 35% di probabilità di registrare ritorni finanziari più alti della media del settore (la percentuale scende al 15 se si considera solo da diversità di genere), mentre quelle che si trovano nel quartile più basso hanno maggior probabilità di ottenere risultati economici al di sotto della media. Si tratta di risultati analoghi a quelli di uno studio condotto dalla società di consulenza Catalyst sulle aziende dell’elenco Fortune 500. Ebbene, le imprese con la maggiore rappresentanza femminile in cda ottengono risultati finanziari in termini di roe, return on sales e roi migliori rispettivamente del 53, del 42 e del 66% rispetto alla media. Insomma, la cosa sembra confermata: se in cda la rappresentanza femminile è nutrita, i risultati di bilancio sono di solito più brillanti. (riproduzione riservata)