La tradizionale linea che ha separato finora vita lavorativa e pensione sta assumendo un tratto sempre più sfumato, perché con la crisi è cambiato il mondo del lavoro e la speranza di vita si è allungata. Ecco perché l’idea di restare iscritti al fondo pensione anche dopo l’uscita dal lavoro è un’opzione da prendere in considerazione. Soprattutto per i vantaggi che può dare all’iscritto. A patto ovviamente di avere un assegno di primo pilastro che sia in grado di sostenere il tenore di vita dopo il pensionamento. Una volta maturati i requisiti di accesso al fondo (o quando l’iscritto ha raggiunto i requisiti minimi per la pensione dell’ente obbligatorio di appartenenza), il pensionato non è obbligato a chiedere la prestazione (capitale o rendita). Si può scegliere tra restare iscritti senza contribuzione o proseguendo la contribuzione in forma volontaria. «In periodi di crisi dei mercati gli aderenti che avrebbero diritto alla prestazione del fondo rischiano di consolidare le perdite registrate sulla propria posizione, mentre restare iscritti consente di rinviare a momenti migliori lo smobilizzo delle posizioni», spiega Arca Previdenza, «nel caso non si abbia necessità immediata di usufruire della prestazione pensionistica, può essere conveniente mantenere l’investimento ed eventualmente effettuare ulteriori versamenti per sfruttarne la deducibilità, continuando nel contempo a godere dei vantaggi fiscali», ovvero della tassazione all’11,5% dei rendimenti, destinata però a essere rincarata al 20%. «Senza dimenticare che, se l’aderente muore quando è ancora iscritto, la posizione accumulata passa agli eredi o ai diversi beneficiari designati dallo stesso», sottolinea Tiziana Tafaro, partner dello studio attuariale Orrù e Associati. La tassazione nel caso di passaggio del capitale agli eredi durante la fase d’iscrizione è identica a quella applicata quando tale passaggio avviene successivamente. La società di consulenza indipendente Progetica ha elaborato per i 30enni, 40enni e 50enni un confronto sulla rendita annua ottenibile versando 100 euro al mese, nell’ipotesi che si percepisca a 67 , a 70 o a 75 anni. Oltre agli importi annui delle rendite c’è la stima dell’aumento: «Naturalmente il tempo è un alleato, in quanto aiuta a incrementare l’assegno integrativo di un valore compreso tra il 45 e l’80%», spiega Andrea Carbone di Progetica. «C’è anche da dire che posticipare il momento di percezione della prestazione consente di agganciare coefficienti di trasformazione più favorevoli perché tengono conto di una speranza di vita più bassa», osserva Tafaro. Progetica ha anche stimato gli anni necessari per compensare, grazie all’aumento della rendita derivante dal posticipo, il mancato incasso dell’assegno integrativo per 3 o 8 anni. «Il mancato incasso si compensa dopo i 90 anni di età se si investe in linea garantita, mentre rimane intorno agli 83-86 anni nel caso di una linea bilanciata». (riproduzione riservata)