di Roberta Castellarin e Paola Valentini

 

Non c’è pace per il risparmio delle famiglie, che sono oggi alle prese con l’ennesimo giro di vite sulla tassazione degli investimenti finanziari. Nel mirino ancora una volta è finita anche la casa. Dall’Imu alla Trise fino ad arrivare alla Iuc, l’Imposta unica comunale, il mattone è stato colpito duramente dalla legge di stabilità 2014 e dal maxiemendamento approvati nei giorni scorsi dal Senato.

I provvedimenti hanno però aumentato anche l’imposta di bollo sulle attività finanziarie oltre che l’Ivafe, il balzello che colpisce gli investimenti detenuti dagli italiani all’estero. Ma per fare un bilancio definitivo bisogna aspettare il passaggio alla Camera, dove potrebbe spuntare anche un aumento dell’imposta sul capital gain dal 20 al 21%. D’altra parte in questo momento lo Stato può fare leva su una base imponibile, ovvero il risparmio, in aumento: gli italiani sono tornati a ricostruire un gruzzoletto, anche se questa volta mossi dalla paura per il futuro. L’aumento dei soldi messi da parte arriva infatti da una riduzione dei consumi.

 

Come emerge dall’ultimo Osservatorio sui risparmi delle famiglie redatto da Gfk Eurisko e Prometeia a giugno 2013, la propensione al risparmio, ovvero la quota di reddito disponibile che le famiglie non hanno destinato ai consumi, si è attestata al 9,1%, recuperando i livelli di fine 2010. «L’aumento dell’indicatore riflette la volontà delle famiglie di aumentare i livelli di risparmio per ricostituire lo stock di ricchezza finanziaria e reale eroso dalla crisi», sottolinea Prometeia, «tale andamento potrebbe però anche rispecchiare l’aggiustamento dei consumi ai nuovi e più bassi livelli di reddito disponibile, interpretati dalle famiglie come duraturi per la persistente debolezza economica e la più elevata pressione fiscale».

E proprio il fisco dal 2011 in poi ha messo nel mirino il risparmio degli italiani. I governi che si sono succeduti, da quello Berlusconi passando per Monti fino a Letta, invece di tagliare spesa pubblica, debito e tasse, hanno deciso di attingere alla ricchezza delle famiglie introducendo una patrimoniale ombra che sale di anno in anno e tocca lo stock di ricchezza investita in immobili o in titoli finanziari (titoli di Stato compresi). L’imposta di bollo sta prendendo una strada simile alle accise sulla benzina, rincarate ogni qual volta serve un aumento del gettito. La nuova legge di stabilità alza dal 2014 l’aliquota per l’imposta di bollo sugli investimenti finanziari allo 0,2%, sempre con un minimo di 34,2 euro. La mini-patrimoniale, introdotta nel 2012 da Monti con aliquota dello 0,10%, è già salita quest’anno allo 0,15%. Lo stesso accade per chi ha titoli depositati all’estero, perché anche l’Ivafe passerà dal 2014 dallo 0,15 allo 0,20%.

 

Quanto porta nelle casse dello Stato questo ulteriore aggravio della tassazione? I conti si trovano nella relazione tecnica della legge e nel maxiemendamento appprovati al Senato. «Per stimare gli effetti di gettito della proposta si sono confrontati, utilizzando i dati di Magister, l’ammontare dell’imposta del 2013 (stimata all’intero anno) rispetto agli introiti dell’anno precedente, e ne è emerso un incremento di gettito pari a circa 1.500 milioni», si legge nella relazione, «pertanto, ipotizzando un andamento analogo, si ritiene che l’aumento allo 0,2% possa apportare un incremento di gettito dell’ordine di 527 milioni di euro annui di competenza a partire dal 2014».

Ma se si somma l’acconto del 95%, il gettito previsto per il 2014 grazie al rincaro è di 939,8 milioni, che diventano 527 dal 2015 in poi. Per quanto riguarda l’Ivafe, ossia l’aliquota per chi ha depositato le attività finanziarie all’estero direttamente o attraverso un trust, il conto si può fare stimando masse all’estero per 11,1 miliardi, il che si traduce in un gettito aggiuntivo di 3,7 milioni all’anno. In questo caso l’innalzamento è avvenuto per ragioni di equità, perché senza questa correzione in corsa chi aveva asset depositati all’estero avrebbe goduto di uno sconto. Ma proprio sul tema dell’equità questa tassa scricchiola, perché non è proporzionale verso chi ha i depositi più bassi. L’importo minimo dell’imposta, pari a 34,2 euro, penalizza i piccoli risparmiatori, ossia chi detiene somme inferiori ai 17.100 euro. «Il bollo fisso di 34,2 euro è una palese iniquità ai danni dei piccoli risparmiatori: chi detiene per esempio depositi per 500 euro si trova infatti a pagare una tassa regressiva e incostituzionale che supera il 6,8%», afferma il presidente di Banca Etica, Ugo Biggeri, che ha chiesto che il Parlamento intervenga per correggere questa distorsione. Al Senato questo appello non è stato accolto, ora bisognerà vedere cosa accadrà nel passaggio alla Camera. In attesa di vedere se ci saranno novità nel testo definitivo, alcune banche propongono di farsi carico dell’imposta di bollo sui dossier titoli usandola come leva di marketing per attirare i clienti.

 

Tornando al tema dell’equità, l’imposta di bollo non è applicata a tutti i prodotti finanziari e di investimento, creando così prodotti più agevolati rispetto agli altri. Se nel caso dei fondi pensione la mano leggera non basta a aiutare l’industria, nelle polizze vita si è tradotta invece in un volano commerciale. Infatti le gestioni separate, che sono appunto esenti dall’imposta di bollo, stanno vivendo un boom di raccolta nell’ultimo periodo. Negli ultimi tempi c’è stato anche un forte incremento della liquidità depositata nei conti correnti, strumenti in cui il bollo picchia meno duro: per le persone fisiche infatti il prelievo non è proporzionale in base all’importo depositato come per gli altri investimenti finanziari, ma è pari a 34,2 euro fissi solo per giacenze superiori ai 5 mila euro annui, come per i libretti postali. Anche i buoni fruttiferi presentano la soglie di esenzione di 5 mila euro, ma l’imposta si applica con l’aliquota dello 0,15%, mentre per i buoni emessi in forma cartacea prima del 2009 l’imposta è calcolata proporzionalmente sul valore nominale del singolo titolo con un minimo di 1,81 euro, ma non è prevista la soglia di esenzione dei 5 mila euro.

 

I prodotti non hanno tutti lo stesso trattamento neanche per quanto riguarda l’imposta sul capital gain e sugli interessi, più leggera per i titoli di Stato comprati direttamente o attraverso gestioni, fondi o polizze. Anche gli interessi maturati sui buoni fruttiferi scontano un’aliquota del 12,5%: differenza non da poco, visto che l’aliquota generale è del 20%. Un’altra eccezione è rappresentata dai fondi pensione, i cui rendimenti restano tassati all’11% e sono esenti dalla Tobin tax, altro balzello fiscale che va ad agire sulle transazioni finanziarie rendendole più onerose.

Questo giro di vite arriva dopo che per anni l’Italia è stata un paradiso fiscale per i rentier e ancora oggi risulta un Paese che tassa molto più i redditi da lavoro rispetto a quelli finanziari. Ma a fronte delle nuove tasse sui redditi finanziari non c’è stato un equivalente alleggerimento di quelle che gravano sul lavoro, rendendo così il conto complessivo per gli italiani più salato. Nella maggioranza dei Paesi europei, esclusa la Germania e la Svezia, si applica una tassazione progressiva ai proventi finanziari come ai redditi. Questo sistema favorisce chi appartiene alle fasce di reddito più deboli. In molti Paesi è prevista inoltre la deducibilità degli interessi passivi, che si traduce in un’imposta finale più bassa. In altri poi, come in Francia, esistono piani a lungo termine agevolati fiscalmente. Ma come si presenta il panorama? In Germania l’aliquota base è al 25%, a cui si aggiunge un contributo di solidarietà che porta il prelievo al 26,375%. In Svezia l’aliquota è del 30% e si applica al complesso dei redditi da investimento, al netto degli interessi passivi e delle perdite. In Francia dal 2013 è stata eliminata la possibilità di optare per la tassazione proporzionale, per cui oggi l’imposta è progressiva sia per gli interessi sia per i dividendi e i capital gain.

 

La tassazione è quindi progressiva per scaglioni che arrivano fino al 45%, a cui si aggiungono i contributi sociali che ammontano al 15,5%. È poi prevista una ritenuta d’acconto pari al 25%, mentre lo stesso sistema si applica ai dividendi ma con un acconto del 21%. Anche nel Regno Unito, che ospita la piazza finanziaria più importante d’Europa, il fisco non è tenero per gli investitori. L’imposizione britannica sugli interessi e sui dividendi è progressiva, con aliquote che vanno dal 10 al 50%, ma c’è una ritenuta d’acconto del 20% solo sugli interessi. Per quanto riguarda i capital gain, questi sono soggetti ad aliquota variabile dal 18 al 28% a seconda del livello del reddito complessivo e dell’entità del capita gain. In Spagna c’è una tassazione ad hoc per i redditi mobiliari, che siano interessi, dividendi o capital gain. Le aliquote dipendono dal livello dei redditi e vanno dal 21 al 27% con una ritenuta d’acconto del 21%. (riproduzione riservata)