di Roberta Castellarin e Paola Valentini

 

Quel che è certo è che anche la sanità pubblica dovrà fare i conti con una riduzione delle risorse a disposizione. Dal ministero della Salute arrivano stime che prevedono risparmi da 10 a 15 miliardi nell’arco dei prossimi cinque anni attraverso una riorganizzazione e una riqualificazione della spesa.

Una spending review che ricadrà anche sulle spalle delle famiglie in un momento in cui la domanda di servizi sanitari è in aumento per via delle tendenze demografiche in atto, con un allungamento della vita media che, come altra faccia della medaglia, farà aumentare il numero di anziani. E, dati questi trend di invecchiamento della popolazione, lo Stato non ce la farà più da solo a soddisfare il previsto aumento della domanda di assistenza. In questa situazione oggi i cittadini devono difendersi come possono in un momento in cui il welfare integrativo sulla carta esiste, ma in pratica deve essere messo ancora a punto, soprattutto sul fronte della sanità complementare. Infatti se sul fronte dei fondi pensione esistono norme di trasparenza e di governance, la situazione dei fondi sanitari è più opaca. A partire dai numeri. Se, come ha affermato di recente il commissario Covip Rino Tarelli, non si sa nemmeno esattamente quanto siano i fondi e le polizze sanitarie attivi in Italia (all’anagrafe sanitaria sono iscritti 293 fondi o casse per un totale di 3,3 milioni di iscritti relativi però soltanto a 201 comparti, mentre la commissione Turco nel 2007 individuò 500 fondi e casse sanitarie per oltre 6,4 milioni di iscritti), per i fondi di previdenza integrativa esistono dati precisi.

I numeri indicano che oggi gli iscritti ai comparti di previdenza complementare sono oltre 6 milioni. Ma al problema della lacunosità dei dati «si aggiunge un quadro normativo non proprio definito, dove ciascuno si regola come può. A partire dalla trasparenza per gli iscritti, carente sia in fase di adesione sia durante la partecipazione», rimarca Tarelli. Controlli e regole comuni «non rappresentano un’omologazione a prescindere dalle scelte che ciascuno ha il diritto di fare, ma si tratta di strumenti per misurare allo stesso modo la propria attività». Regole comuni sono quindi necessarie in un mercato dove il cittadino ha di fronte un’offerta con caratteristiche e costi diversi. Da una parte ci sono le polizze, assicurazioni sulla salute che coprono prestazioni a seconda della consistenza del premio versato. Sono legate ai rischi e alle caratteristiche, anche fisiche, della persona che stipula l’assicurazione. In Italia inoltre non è prevista deduzione fiscale per le polizze malattia, che inoltre sono soggette a un’aliquota del 2,5% sul premio imponibile. I fondi seguono tutt’altro regime legislativo e fiscale. Derivano dai contratti collettivi di lavoro o dalle iniziative di alcune categorie che attivano fondi propri. Quanto alla deducibilità, i fondi negoziali, territoriali o le casse di mutuo soccorso iscritte all’Anagrafe devono impegnarsi a garantire che il pacchetto delle prestazioni offerte sia costituito per il 20% da cure odontoiatriche e per anziani non autosufficienti.

Se rispondono a queste caratteristiche, lo Stato riconosce ogni anno al soggetto una deducibilità di 3.615,20 euro l’anno.

 

Il panorama è quindi variegato. «Questo quadro così com’è destituisce di credibilità tutto quello che è stato fatto di buono in questo settore, che non è poco», prosegue Tarelli. D’altra parte che ci sia un impellente bisogno di coprire la sanità con forme integrative è fuor di dubbio. «Il sistema sanitario integrativo non deve però andare ad alterare il ruolo del Servizio Sanitario Nazionale, in quanto sarebbe un passo indietro in termini di civiltà, ma serve a completarlo, affinarlo, migliorarlo», dice ancora Tarelli. Nella costruzione di questo secondo welfare però occorre «fin d’ora rispettare alcune regole di base». La strada che oggi si cerca di imboccare per aiutare i cittadini a gestire i rischi d’invecchiamento e malattia è quella dell’unione tra fondi sanitari e fondi pensione. «Ma un progetto d’integrazione tra questi fondi deve innanzitutto tenere conto della differenza che esiste e dovrà esistere tra i due strumenti. I primi sono soggetti da tempo a una normativa organica che ne regola tutti gli aspetti, mentre per i fondi sanitari il percorso di attuazione della normativa deve ancora completarsi», prosegue Tarelli.

 

Accanto al fatto che i fondi pensione sono regolati da un’autorità indipendente che è invece assente nel caso dei fondi sanitari, la questione più delicata riguarda il diverso orizzonte temporale. «I fondi pensione sono destinati al soddisfacimento di bisogni che possono essere anche molto lontani nel tempo, anche distanti 40 anni», sottolinea Tarelli, mentre i fondi sanitari coprono esigenze che si manifestano nel corso della vita dell’iscritto. Quindi «l’eventuale prestazione congiunta di servizi previdenziali e sanitari dovrebbe rispondere a rigidi criteri di separazione patrimoniale, non solo amministrativa e contabile, mediante la creazione di patrimoni separati. Per la diversa natura e i diversi servizi che devono assicurare è necessario tenere distinti fondi pensione e sanitari al momento sia dell’accumulazione delle risorse sia dell’erogazione delle prestazioni», aggiunge Tarelli. Il rischio infatti è che ogni risorsa che viene sottratta anticipatamente alla costruzione di un piano pensionistico non possa poi essere disponibile in termini di pensione complementare, «finendo per snaturare anche il pilastro numero due». Nella sostanza quindi «si tratta di concorrere a un modello sociale che, lungi dallo sminuire il ruolo pubblico, veda il privato svolgere un ruolo complementare ma attivo e profondo e con competenze proprie». Oggi quindi si apre un mercato molto ampio per gli operatori della sanità integrativa in un momento in cui si cerca di rimodulare il sistema sociale in base a fattori economici, politici e demografici cambiati rispetto al passato. «Tali spazi però devono essere occupati in modo efficace al riparo da ogni scorribanda speculativa, altrimenti si lasciano alla legge del più forte mentre le persone malate o anziane sono le più deboli», spiega Tarelli.

 

Un eventuale progresso su questa strada sviluppo che potrebbe contribuire anche alla crescita economica. Come emerge dal primo «Rapporto sul secondo welfare in Italia» presentato da Centro Einaudi e Fondazione Cariplo: l’incidenza del terzo settore sul pil è valutabile in più di 4 punti percentuali, gli occupati retribuiti in circa 670 mila unità, cui si aggiungono quasi 5 milioni di volontari. Le cooperative sociali (un’invenzione italiana) sono più di 11 mila, le Fondazioni più di 6 mila. Fra queste spiccano le Fondazioni di origine bancaria, che dispongono di un patrimonio di 42 miliardi che nel 2012 ha permesso di erogare quasi 1 miliardo tramite 22 mila interventi, di cui poco meno della metà sono andati a settori direttamente riconducibili al welfare. Escludendo la previdenza complementare, già da tempo presente nella quasi totalità delle grandi imprese, oltre l’80% delle aziende italiane con più di 500 dipendenti ha avviato qualche iniziativa di welfare aziendale e ben il 43% offre almeno due tipi di interventi di welfare. Anche il settore assicurativo sta lentamente attivandosi nella copertura dei rischi sociali. La sua incidenza è però ancora inferiore a quella che si registra negli altri Paesi sviluppati, soprattutto per quanto riguarda la long-term care. Il potenziale di espansione è perciò ampio, anche considerando il fatto che la spesa sanitaria a carico delle famiglie (out of pocket) si aggira tra il 25 e il 30% della spesa sanitaria complessiva. (riproduzione riservata)