di Roberta Castellarin e Paola Valentini

Oggi 6 milioni di lavoratori sono iscritti a un fondo pensione e oltre 7 a fondi sanitari integrativi. Si tratta di prodotti nati per fare da stampella al welfare pubblico, che deve fare i conti con i tagli alla spesa e l’invecchiamento della popolazione. Entrambe le categorie di fondi godono di benefici fiscali, contributi dell’azienda e del lavoratore, e si rivolgono alla stessa platea.

Si rivolgono peraltro agli asset manager per la gestione delle loro risorse. «Casse previdenziali di primo pilastro, fondi pensione e fondi sanitari integrativi sono diversi come composizione ma devono cominciare a conoscersi. Siccome l’obiettivo è unico, il welfare, se si fa massa critica è possibile ottenere qualcosa di più, se invece si lavora come Orazi e Curiazi è difficile che qualcuno riesca a guadagnarci. Anche perché ai piani alti dei ministero dell’Economia si pensa di introdurre un plafond di deducibilità fiscale», avverte Alberto Brambilla, coordinatore scientifico di Itinerari Previdenziali. Che proprio sul tema delle sinergie tra i vari attori del welfare ha organizzato nei giorni scorsi un convegno.

 

Viene quindi spontaneo chiedersi quali sono le possibilità di collaborazione tra questi prodotti. Anche perché un passo indietro dello Stato nei prossimi anni sarà inevitabile, con il Fiscal compact che bussa alla porta.

E nel frattempo «visto l’attuale andamento demografico, la domanda di welfare non è contenibile né regolabile, ed è meglio rendersi conto che è in crescita costante e quindi o riduciamo le prestazioni, e allora affidiamo al proprio destino milioni di persone, o si affronta la questione che da solo lo Stato non ce la fa. Nonostante le difficoltà il welfare infatti resta un bene sociale al quale rinunciare il meno possibile», afferma Pier Paolo Baretta, sottosegretario al ministero dell’Economia. Dal declino della natalità all’allungamento della vita media, dall’invecchiamento della popolazione ai nuovi modelli del mercato del lavoro sono numerosi i fattori che fanno aumentare lo sbilancio del sistema pensionistico, la spesa per l’assistenza e la cura della persona e quella per la sanità. In altre parole lo Stato italiano non potrà più farsi pieno carico dei rischi sociali. «Peraltro, dati i trend demografici nemmeno uno Stato sano riesce a soddisfare la domanda di prestazioni», aggiunge Baretta. Se nella previdenza questo passo è già stato fatto con la riforma Monti-Fornero che ha allontanato l’età della pensione e introdotto il sistema contributivo pro-quota per tutti, il parlamento deve ancora affrontare un riordino della spesa pubblica assistenziale e in particolare di quella sanitaria. «Si potrà e dovrà razionalizzare la domanda di welfare. Nessuno pensa che bisogna rinunciare al concetto di universalismo, che è la possibilità per il cittadino di accedere alle prestazioni indipendentemente da chi gliele fornisce, che sia un’Asl, un ospedale oppure una struttura integrativa.

L’importante è che gli risolvano il problema», prosegue Baretta. E la soluzione non è facile perché è necessario trovare un equilibrio tra statalismo e liberismo. Né l’uno né l’altro da soli possono dare gli strumenti per affrontare queste nuove emergenze. «Appare evidente che l’attuale sistema di welfare sia destinato a subire una mutazione genetica. Di certo, per mantenere l’universalità del sistema se non sarà possibile diminuire la percentuale di spesa privata sarà necessario riqualificarla, passando dal concetto di spesa individuale a quello di spesa collettiva con quote di mutualità e solidarietà», spiega Sergio Corbello, presidente di Assoprevidenza.

 

Oggi agli italiani integrare i servizi di welfare costa caro, perché spendono di tasca propria di più rispetto al passato in spese sanitarie. Da un’indagine condotta di recente da Deloitte in collaborazione con Gfk Eurisko, emerge che, sebbene il 50% delle famiglie percepisca un aumento del bisogno di protezione e la spesa «di tasca propria», ovvero sostenuta senza avere rimborsi dallo Stato, sia superiore a 1.900 euro l’anno per famiglia, soltanto il 21% degli intervistati si è attivato per combattere questi timori per esempio sottoscrivendo polizze assicurative che facciano fronte agli imprevisti. Ma quanto costerebbe coprirsi? Secondo la ricerca le famiglie che hanno scelto di assicurarsi hanno speso per tutelarsi 1.400 euro l’anno, molto meno delle spese sostenute direttamente.

 

Per quanto riguarda in particolare proprio le spese mediche, il costo medio annuo sostenuto dagli italiani per la salute, quindi visite specialistiche, dentali o analisi, ma anche medicinali, dispositivi medici, occhiali e apparecchi ortodontici, in base agli ultimi dati Istat, è stato mediamente di 1.200 euro. E di questi nel 2012 oltre il 50% è stato sostenuto interamente dalle famiglie. Il problema è molto sentito dagli italiani perché il 53% degli intervistati ritiene che le spese sostenute per la salute a proprio carico siano aumentate rispetto a qualche anno fa. E in un clima economico ancora difficile le spese impreviste per infortunio o malattia grave sono tra le maggiori fonti di preoccupazione. Per questo, nonostante un reddito disponibile in forte calo dal 2007 a oggi e un tasso di disoccupazione quasi raddoppiato (dal 6,8% del 2007 al 12,2% del 2013), sei famiglie su dieci riescono a risparmiare e in media viene accantonato circa il 10% delle entrate familiari annue. Nel 73% dei casi tale risparmio viene accumulato allo scopo di garantire alla propria famiglia una riserva di sicurezza. Ma il fatto che ci siano pochi italiani che hanno sottoscritto polizze sanitarie dipende anche dalla pigrizia delle compagnie. Infatti il 68% delle famiglie non è mai stato contattato nell’ultimo anno per proposte commerciali né dalla propria compagnia né da altre. Un quadro simile emerge quando si va ad analizzare il bisogno previdenziale delle famiglie. Gli italiani hanno una buona consapevolezza del fatto che andranno in pensione tardi e con magri assegni. Dal sondaggio di Gfk Eurisko emerge che l’età media stimata per l’addio al lavoro è di 66 anni con un tasso di sostituzione del 47% rispetto al reddito percepito in età lavorativa. Ma solo l’11% delle famiglie italiane pensa di ricorrere a forme di previdenza complementare per far fronte a tale criticità. Il 22% farà affidamento sui risparmi accumulati durante l’età lavorativa a testimonianza dell’importanza che viene data dagli italiani al risparmio come scudo protettivo.

 

Ma allarma il fatto che oltre il 40% degli italiani preferisce non porsi ancora il problema. E questo anche se tutti gli studi dimostrano che è necessario avviare presto un piano di risparmio previdenziale per avere una sufficiente copertura. Se la nascita di fondi per il welfare che coprano tutte le esigenze a 360 gradi sembra ancora lontana, invece appaiono più possibili strette sinergie tra fondi sanitari e pensionistici di natura negoziale, che si rivolgono allo stesso tipo di lavoratori, e tra fondi pensione e polizze long term care. Fondi sanitari e fondi pensione sono due realtà molto diverse, ma sinergie sono possibili soprattutto dal punto di vista del potere contrattuale nel momento in cui si chiedono servizi ai gestori. Più consistenti sono le masse, più convenienti sono le condizioni che si possono strappare. «I fondi integrativi, a partire dai fondi pensione, devono fare un passo avanti. Ho un giudizio molto positivo su come i gestori dei fondi pensione italiani abbiamo gestito finora il loro patrimonio, ma ora c’è bisogno di un’audacia maggiore. Penso che sia necessario un rapporto stretto tra previdenza complementare e sanità integrativa. Non c’è dubbio che se il lavoratore è iscritto a un fondo pensione, che garantisce soltanto la rendita integrativa, poi rischia di non avere risorse sufficienti anche per versare contributi al fondi sanitario e alla polizza integrativa e così via», prosegue Baretta. Che rilancia sulla questione dell’obbligo di aderire a qualche forma di integrazione: «Se devo stare in piedi su due gambe, dati i trend di evoluzione demografica, mi chiedo se il fatto di avere una seconda gamba debba essere volontario o meno». Un nuovo sistema di welfare chiama in causa anche gli aspetti fiscali. «Non nascondo che l’esito di questi ragionamenti è una nuova normativa fiscale. So che ci sono difficoltà per arrivarci, ma dal punto di vista del ministero per cui opero ragionare su una normativa fiscale che incentivi è più facile se l’intervento affronta un’intera materia. Penso che ci vorrà, peraltro i fondi pensione prevedono incentivi fiscali, ma sono ancora inadeguati», conclude Baretta (riproduzione riservata)