Sono tanti i fattori che, secondo Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia del Lavoro all’Università La Sapienza di Roma, possono contribuire a spiegare la fuga degli italiani dagli investimenti e la corsa verso la liquidità. Il primo è strettamente economico ed è legato alla crisi in atto che, come visto dal sondaggio Acri Ipsos (si veda altro articolo nella pagina a fianco), ha colpito direttamente una famiglia su quattro, con almeno uno dei componenti che ha perso il posto di lavoro o ha subito un taglio della retribuzione. «Il risparmio arriva all’investimento in strumenti finanziari solo quando ce n’è abbastanza per soddisfare altri bisogni di base», esordisce De Masi. «Come dire: se ho risparmiato poco, posso solo permettermi di andare al cinema o a cena fuori; se ho messo da parte qualche risparmio in più, posso consentirmi di cambiare il frigorifero o il televisore, insomma di acquistare un bene durevole».

E solo quando c’è stato un accumulo più consistente si comincia a guardare a forme di investimento del risparmio. Insomma, in questa fase di difficoltà il risparmio si è inevitabilmente assottigliato e non riesce ad arrivare alla fase dell’investimento, restando inevitabilmente più liquido. Ma non è solo questo. A tale situazione si aggiungono «gli effetti negativi del susseguirsi di scandali finanziari», aggiunge De Masi, «che hanno minato la fiducia dei risparmiatori verso le istituzioni finanziarie» e poi c’è un fattore di sicurezza sociale che vacilla.

Tra riforma delle pensioni e tagli alla spesa sanitaria gli italiani si sentono sempre meno sicuri, con effetti pesanti sui consumi ma anche sugli investimenti. «Il proletario, secondo Marx, non è quello che muore di fame oggi, ma quello che teme di morire di fame domani», spiega De Masi. È una situazione di incertezza sociale che accumula l’Italia ad altri Paesi europei, nord Europa escluso, «con l’unica eccezione della Germania, dove il governo di Angela Merkel sta puntando proprio sul tema della sicurezza sociale per ampliare il consenso». Intanto in Italia sta aumentando il divario tra i ricchi e i poveri, con i secondi che hanno ormai raggiunto quota 5 milioni su un totale di 60 milioni di cittadini. «Le dieci persone più ricche d’Italia insieme guadagnando quanto 3 milioni di poveri», nota Masi. Ma non ci si dovrebbe limitare a guardare il fenomeno da un’angolazione, bensì è utile allargare lo sguardo al quadro d’insieme. «In questo modo ci si rende conto che nell’analizzare la situazione italiana ed europea non si può parlare di crisi come se fosse un fenomeno passeggero, quasi un’influenza», sostiene De Masi. Siamo invece nel bel mezzo di «una redistribuzione mondiale della ricchezza». Un italiano ha una produzione di ricchezza pro capite media di 34 mila dollari l’anno, contro i 4 mila dollari di un cinese, i 1.400 dollari di un indiano e gli 11 mila dollari di un brasiliano. «Paesi che crescono a ritmi ben più elevati del nostro e che non si possono più permettere i tassi di sviluppo degli anni passati», conclude De Masi. Come dire: i Paesi ricchi non potranno più crescere come in passato e «la strada è segnata: quelli ricchi sono destinati a impoverirsi un po’ e i poveri a diventare un po’ più ricchi». (riproduzione riservata)