Negli anni 50 un documentario intitolato Qualcuno pensa a noi di Giorgio Ferroni spiegava agli italiani che lo Stato si sarebbe preso cura di loro dalla culla fino alla vecchiaia. Si susseguivano immagini di asili per l’infanzia, case di cura e residenze per anziani linde ed efficienti. Per finanziare questo welfare lo Stato però ha per anni speso più di quanto incassava e ciò ha portato, 63 anni dopo, a un debito pubblico monstre di 2 mila miliardi di euro.

Così ora i conti non tornano più. Vista la necessità di ridurre il debito, l’attenzione è sempre più rivolta a quanto può essere tagliata la spesa per alleggerire la pressione fiscale e nello stesso tempo ripagare gli interessi sul debito. Così i cittadini iniziano a chiedersi chi penserà a loro. Gli italiani in questo sono in buona compagnia. In molti Paesi europei è in corso una revisione del sistema del welfare, che di fatto implica un minore intervento dello Stato e la creazione di un gap che dev’essere colmato dai cittadini. I nodi principali sono: pensioni, sanità, assistenza, hausing sociale e sviluppo di politiche per il lavoro giovanile.

Proprio per riflettere su questa trasformazione epocale la Fondazione Cariplo ha organizzato a Milano due giorni di incontri sul tema del secondo welfare in Italia. In occasione del convegno è stato presentato il «Primo rapporto sul secondo welfare in Italia», curato da Centro Einaudi e Università degli Studi di Milano. Rapporto che parte dalla riflessione: sarà necessario superare l’idea di universalismo, inteso come copertura onnicomprensiva di tutta la popolazione, per tutti i bisogni meritevoli di tutela e in forma completamente gratuita. «A questa concezione, di dubbia sostenibilità dal punto di vista non solo economico-finanziario ma anche della giustizia distributiva, appare opportuno contrapporre l’alternativa dell’universalismo progressivo: accesso esteso a tutta la popolazione, ma con filtri selettivi capaci di calibrare il paniere delle prestazioni in base all’intensità del bisogno e della situazione economica degli utenti», dice Maurizio Ferrera, docente di Scienza della Politica all’Università degli Studi di Milano. «Ciò significa garantire di meno a chi ha meno bisogno e chiedere a chi può permetterselo, in base alla situazione economica, una compartecipazione progressivamente più elevata per accedere alle prestazioni garantite. La compartecipazione rimarrebbe comunque più bassa del costo reale del servizio e del suo prezzo sul mercato privato». Un esempio può essere quello degli assegni di accompagnamento. «Lo Stato spende ogni anno circa 15 miliardi per questi assegni, che sono troppo bassi per le famiglie che ne hanno davvero bisogno e d’altro canto rappresentano un’integrazione non davvero necessaria per chi ha redditi medio-alti. Avrebbe più senso redistribuire le somme in modo da dare un contributo maggiore a chi è in difficoltà economica», dice Ferrera. Certo, in Italia resta il nodo dell’evasione fiscale e quindi il problema dell’individuazione di chi ha davvero bisogno della prestazione. «È necessario trovare sistemi per identificare la vera situazione economica di chi chiede la prestazione, in modo da non lasciare spazio al malcostume delle false dichiarazioni», concorda Ferrera. Da una parte c’è dunque uno Stato che deve spendere meglio le risorse, ma dall’altra parte ci sono i privati che si devono organizzare. «In Italia è ancora bassa l’offerta di polizze sanitarie o di polizze che coprano il rischio di perdita di lavoro, a fronte invece di una grande ricchezza finanziaria depositata sui conti correnti», dice Ferrera. Affinché parte di questa ricchezza torni in circolo proprio in prodotti che integrino il welfare pubblico, sarebbe necessario un inquadramento complessivo dal punto di vista sia legislativo sia dei benefici fiscali per quanto riguarda le mutue e le polizze sanitarie, ma anche per il welfare aziendale. «Il ministro del Lavoro Enrico Giovannini era presente al nostro convegno e si è dichiarato pronto ad accogliere proposte che vadano in questa direzione. Ci vuole un quadro normativo chiaro come quello che esiste per la previdenza complementare», dice Ferrera.

Tra i temi sul tavolo c’è anche quello della disoccupazione e in particolare di quella giovanile che in Italia ha raggiunto livelli ormai insostenibili. In base ai dati Istat il tasso di disoccupazione a ottobre è rimasto stabile al 12,5%, ovvero lo stesso valore registrato a settembre, quando aveva toccato il record dal primo trimestre 1977. Mentre va sempre peggio per i giovani: il tasso di disoccupazione dei 15-24enni cresce ancora, dello 0,7%, schizzando al 41,2%. Aumentano in particolare i disoccupati under 30. Nel terzo trimestre 2013 il tasso di disoccupazione per i ragazzi tra i 18 e 29 anni si attesta al 28%, in crescita del 5,2% su base annua; parliamo di 1 milione e 68 mila persone. «Tra le priorità di Fondazione Cariplo c’è l’occupazione giovanile», sottolinea Mariella Enoc, vicepresidente dell’ente. «Gli incontri di questi giorni con le Fondazioni e con gli organismi internazionali hanno già generato collaborazioni pronte per essere concretizzate. Vogliamo dare risposte a breve. Non si può più aspettare. Così come è stato per l’housing sociale, modello che risponde alla necessità di case a canone basso per le giovani coppie, vogliamo arrivare presto ad attivare iniziative comuni per l’occupazione giovanile, affrontando il problema con una visione che guarda alle partnership come unica via in un momento come questo». Il tutto tenendo conto del fatto che uno sviluppo del secondo welfare in Italia potrebbe rappresentare anche un volano per l’economia. «Se parte della ricchezza congelata oggi nei conti correnti fosse destinata a proteggersi dai rischi sociali e a integrare efficientemente quanto dato dallo Stato, si otterrebbe un beneficio in termini di pil e di occupazione. In Francia e Gran Bretagna ci sono 2 milioni di lavoratori in più rispetto a quelli che si contano in Italia in questo settore», conclude Ferrera. (riproduzione riservata)