di Roberta Castellarin e Paola Valentini

L’Italia fino a qualche anno fa era il paradiso dei rentier. Sia le rendite finanziarie sia quelle legate al mattone, infatti, godevano di una tassazione decisamente vantaggiosa. Ma con la crisi finanziaria che ha fatto impennare lo spread tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi è partita una manovra fiscale che ha preso di mira tutte le forme d’investimento, mettendo fine ai sonni felici di chi viveva di rendita. Il primo brusco risveglio lo ha causato l’imposta di bollo sul conto titoli, introdotta a partire da quest’anno da governo Monti. Una sorta di mini patrimoniale che invece di colpire le proprietà dei contribuenti, li stanga sui prodotti finanziari. L’imposta di bollo, infatti, è stata aumentata ed estesa a quasi tutti questi prodotti, indipendentemente dal collegamento o meno con un deposito titoli: da un fisso di 34,2 euro si è passati a un’aliquota dello 0,1% per il 2012 (con un minimo a 34,2 euro e un massimo a 1.200 euro), ma già dal 2013 la tassa è salita allo 0,15%, senza alcun tetto. Un balzello che non risparmia nemmeno i conti di deposito ad alto rendimento, esclusi nella prima fase. Fanno eccezione fondi pensione, polizze vita rivalutabili (ramo I) e fondi sanitari. Non solo. Con il decreto sviluppo è stato previsto che anche per le polizze estere le compagnie ogni anno dovranno versare all’Erario lo 0,35% dello stock di riserve accumulate. Inoltre i rendimenti che derivano da contratti di assicurazione sulla vita, diversi da quelli aventi per oggetto il rischio di morte, di invalidità permanente e di non autosufficienza, nonché di capitalizzazione, sono soggetti all’imposta sostitutiva anche se corrisposti da soggetti non residenti a persone fisiche residenti nel territorio dello Stato non esercenti attività d’impresa. L’imposta sarà del 20%, con l’avvertenza che per la parte di reddito percepita dal momento della sottoscrizione o dell’ acquisto fino al 31 dicembre 2011 si potrà pagare solo il 12,50%. Questo, perché dalla fine dello scorso anno tutte le rendite finanziarie, eccezione degli investimenti in titoli di Stato, non sono più tassate al 12,5%, ma al 20%. Bordata dopo bordata, la sfilza d’interventi fiscali sulle rendite ha creato anche non poche distorsioni nel mercato dei prodotti finanziari. Per esempio sono diventate più convenienti, fiscalmente parlando, le polizze vita tradizionali che non sono soggette all’imposta di bollo, mentre i fondi potrebbero essere favoriti dall’introduzione dell’Iva sulle commissioni delle gestioni patrimoniali, ultimo balzello anti-rentier, introdotto con il ddl Stabilità. La distinzione riguarda anche i conti correnti. Visto che quelli di deposito sono soggetti all’imposta di bollo, ma i c/c tradizionali no. Alcuni operatori, in attesa di chiarimenti normativi, hanno iniziato a offrire conti di deposito costruiti tecnicamente come comparti di un conto corrente e in quanto tali su di essi non si paga lo 0,1%, ma soltanto i 34,2 euro annui previsti per i c/c. Il problema per i Paperoni è che nessuno se la sente di scommettere che sia finita qui. Il timore è che dai singoli prodotti, si passi a tassare il patrimonio individuale complessivo. Lo spettro è l’Isf francese, l’imposta patrimoniale progressiva a scaglioni che prevede aliquote dallo 0,55% all’1,8% e riguarda il patrimonio complessivo, comprese le attività detenute all’estero per chi supera una certa soglia di ricchezza. Dovesse essere introdotta anche in Italia l’unico modo di dribblarla sarebbe di privarsi dell’intestazione dei beni. E qui entra in gioco il trust, un istituto ancora poco conosciuto in Italia, che premette di segregare il patrimonio mobiliare e immobiliare trasferendolo a un terzo soggetto, il trustee, che ha soltanto l’obbligo di amministrarlo. «Se in Italia una patrimoniale dovesse tassare le proprietà delle persone fisiche, senza prevedere espressamente un’estensione ai trust, allora quest’ultimo sfuggirebbe all’imposta, perché il trust è un ente economico non commerciale », spiega Salvatore Tramontano, vice presidente di Mpo trustee, società italiana per la tutela dei beni mobiliari e immobiliari. Quel che è certo è che oggi il trust, tra i vari vantaggi che offre nella protezione della ricchezza, permette di evitare le patrimoniali fuori d’Italia, perché «il soggetto passivo delle nuove imposte patrimoniali estere è il proprietario o altro titolare di un diritto reale, in entrambi i casi persona fisica. Inoltre», spiegano gli esperti di Studio Impresa, «se un soggetto dispone di beni immobili o attività finanziarie in un trust internazionale, non essendo più proprietario dei beni, non deve effettuare la segnalazione nel modulo Rw (utilizzato dai residenti in Italia per indicare gli investimenti all’estero e le attività estere di natura finanziaria, ndr». In ogni caso oggi è già possibile usare in Italia il trust come strumento di pianificazione fiscale perché i redditi prodotti da questo istituto hanno un regime fiscale più conveniente. «Tutti i redditi prodotti dal patrimonio in trust pagano l’imposta Ires con aliquota proporzionale del 27,5% mentre per le persone fisiche l’aliquota dell’imposta sui redditi è progressiva e arriva fino al 43%», prosegue Tramontano. «E non bisogna scordare che è anche prevista l’esenzione del 95% dei dividendi trasferiti da società di cui il trust è socio». (riproduzione riservata)