Stefano Micossi

Con la legge di stabilità l’Italia si doterà finalmente di una bella imposta sulle transazioni finanziarie. Naturalmente, come si conviene, è un’imposta europea perché così si eviteranno indesiderabili delocalizzazioni della base imponibile e manovre evasive: l’Italia si è affrettata ad aderire all’apposita cooperazione rafforzata montata in seno all’Unione da Francia e Germania, che consentirà di introdurre l’imposta anche contro il parere della perfida Albione, pardon, Regno Unito. L’imposta è stata salutata con un triplo urrah dagli europeisti, che vedono realizzato il sogno di una vera imposta europea, fonte finalmente di risorse genuinamente proprie per il bilancio dell’Ue; ma anche curiosamente da coloro che l’integrazione l’amano poco, che festeggiano la punizione, appunto, degli speculatori. Così, pur trattandosi di una nuova tassa, le critiche sono state poche, solo qualche operatore finanziario; ma si sa, trattasi in larga parte di speculatori. Dunque, cappello alzato davanti al Tesoro e alla Ragioneria, che almeno qui han fatto centro. Un bel miliardino di euro pulito pulito, son tutti contenti. Ma è proprio così? Non sarebbe il caso di guardare le cose più da vicino? La dimensione europea, anzitutto. Beh, alla cooperazione hanno aderito finora 11 Paesi, poco più della base minima per consentire alla Commissione di presentare una proposta al Consiglio: mancano per ora, oltre al Regno Unito, l’Irlanda,

i Paesi nordici, l’Olanda, la Polonia, altri Paesi dell’Europa centrale. Nella proposta di direttiva del settembre 2011 la Commissione aveva proposto di tassare tutte le transazioni finanziarie dovunque eseguite, purché almeno una delle controparti fosse residente nell’Ue. Restavano fuori le transazioni per i pagamenti correnti e le operazioni in valuta estera. L’aliquota doveva essere almeno pari allo 0,1% per le transazioni cash, ma molto più piccola, come minimo dello 0,01 per cento, per i contratti derivati, perché questi sarebbero tassati sul valore nozionale (cioè, in sostanza, dei titoli sottostanti, che è un multiplo del costo del contratto). Tre gli obiettivi indicati dalla Commissione per questa tassa: armonizzare le imposte indirette sulle transazioni finanziarie evitando distorsioni nel mercato interno, cioè lo spostamento delle basi imponibili verso giurisdizioni dove la tassa non c’è; gettare sabbia negli ingranaggi dei mercati in modo da frenare le transazioni ad alta frequenza per operazioni di brevissimo termine; raccogliere risorse proprie per il bilancio dell’Unione, in sostituzione o aggiunta alle entrate esistenti. La direttiva non era finora approdata davanti al Consiglio per l’opposizione del Regno Unito; la decisione, infatti, richiede unanimità, vincolo che ora sarebbe superato con procedura della cooperazione rafforzata. Ma intanto tre paesi sono andati avanti da soli: Regno Unito, Francia e Italia. Nel Regno Unito, si tratta di un’imposta di bollo sul trasferimento di titoli azionari che si applica al cambiamento del possesso finale di azioni emesse da emittenti inglesi o effettuate sul mercato di Londra anche tra intermediari non residenti. Dunque, l’imposta colpisce l’investitore retail più che le transazioni; il criterio di residenza indicato dalla Commissione è ignorato; la tassa non si applica ai derivati. La Francia ha introdotto un’imposta di bollo sul trasferimento di azioni emesse da società residenti in Francia e con capitalizzazione di borsa superiore a un miliardo di euro (poco più di cento) e negoziati in mercati regolamentati. L’imposta si applica con aliquota dello 0,2% e un ulteriore aggravio dello 0,01% sulle transazioni ad alta frequenza, nonché a un sottoinsieme dei contatti derivati, i credit default swap in titoli di stato europei. La tassa italiana, infine, si applicherà alle transazioni in azioni e in derivati over the counter, con l’esclusione dei titoli di Stato; l’aliquota è unica per transazioni cash e derivati dello 0,05%, con un aggravio di costo per questi ultimi dato il riferimento al valore nozionale. In tutti i casi, le entrate servono per l’equilibrio del bilancio nazionale; se con la direttiva si vorrà un contributo al bilancio europeo, servirà un’ulteriore sovrattassa. Dunque non è una tassa europea, perché è diversa da Paese a Paese e non fa affluire risorse verso il bilancio dell’Unione; non siamo neanche davanti all’imposta di Tobin perché per gettare sabbia negli ingranaggi dei mercati bisogna colpire tutte le transazioni mentre nei casi in esame gran parte delle transazioni è esente; non si preserva il mercato interno dalle temute distorsioni di forum shopping da parte dagli operatori. Dappertutto si sono esentate le transazioni finanziarie in titoli di Stato: se lo scopo era di combattere la speculazione su tali titoli si dovevano includere. Ma l’esenzione è rivelatrice: ciò che i governi vogliono sono i soldi. Esentano i titoli di stato perché sanno che l’incidenza finale dell’imposta non sarà sugli intermediari come si è voluto far credere, ma su emittenti e risparmiatori. La ciliegina sulla torta nel caso italiano è nella relazione al provvedimento: lì si vede che i proventi attesi dall’imposta, il famoso miliardo, derivano in gran parte dall’applicazione di quell’aliquota punitiva ai derivati; ma si vede anche che il Tesoro si attende, a seguito dell’imposta, un calo delle transazioni in azioni del 30% e in derivati dell’80. Un colpo mortale alla piazza finanziaria milanese che già non naviga in buonissime acque. Né si capisce su quale base la Ragioneria dello Stato possa argomentare che un 20% di transazioni non muoverebbe altrove: un 20% di polli? Il risultato più probabile è che il mercato italiano dei derivati over the counter scompaia e che i proventi dell’imposta di conseguenza siano pari a zero. Anzi, dovremmo mettere in conto, a carico del bilancio pubblico, forti spese di viaggio del povero dottor Befera, che dovrebbe mettersi a correre tra i mercati finanziari che non applicano la tassa europea per identificare le transazioni nelle quali una controparte sia italiana. Nell’insieme, un’idea assolutamente geniale. Auguri!