Marco Panara

L e assicurazioni erano l’ossessione di Enrico Cuccia. Una ossessione niente affatto disinteressata, determinata da una ragione molto semplice: in un paese con un mercato asfittico e un capitalismo assai più attratto dalla rendita che dal rischio, nonché tendente ad accumulare all’estero (possibilmente nei paradisi fiscali) più che in patria, l’unico grande deposito di capitali a lungo termine erano, e sono, le casseforti delle compagnie di assicurazione. Avere il controllo di quelle casseforti voleva dire controllare e orientare l’intero capitalismo italiano. Le creature prescelte da Cuccia, e da lui amorevolmente curate, erano Generali e Fondiaria, che – l’altra grande compagnia nazionale Ina-Assitalia essendo pubblica, Unipol legata al mondo delle cooperative e (allora) lontana da logiche di potere finanziario, Sai nelle mani dell’amico (allora) Ligresti – erano più che sufficienti alla bisogna. A Cuccia premeva che fossero legate a filo doppio a Mediobanca, e le utilizzava per consolidare il controllo della famosa Galassia del Nord che serviva a tenere in mani private italiane quel po’ di aziende di media e grande dimensione che nel corso del ’900 si era riusciti a costruire. Sull’altro fronte c’era la grande impresa pubblica, in un primo tempo assai efficace e poi assai vorace, dalla quale Cuccia, seduto a cavallo tra pubblico e privato (i maggiori azionisti di Mediobanca erano Banca Commerciale, Credito Italiano e Banco di Roma tutte e tre controllate dall’Iri), difendeva i capitalisti privati da lui protetti sopperendo con i suoi metodi (patti di sindacato e incroci azionari) alla loro naturale idiosincrasia a mettere soldi propri nelle aziende che volevano controllare. Grazie a questo sistema Cuccia è riuscito nella opera immane di difendere alcuni di quei pezzi del capitalismo italiano ma non di farli crescere e diventare vere multinazionali, mentre altri pezzi sono stati smarriti negli anni. Per realizzare tutto questo, ciò che contava era innanzitutto, e quando possibile, controllare direttamente le assicurazioni e comunque impedire che finissero in mani estere o nemiche. I tempi sono cambiati assai, salvo per due aspetti: le casseforti delle assicurazioni continuano ad essere i soli contenitori di grandi capitali a lungo temine e, anche se Cuccia non c’è più, l’ossessione per il loro controllo è rimasta forte come allora. Non è una caratteristica solo italiana. In Francia Axa è blindatissima, tra le quote possedute dal suo principale azionista Mutuelles Axa, quelle nei portafogli dei suoi dipendenti e agenti e quelle controllate da Bnp Paribas si arriva al 27 per cento del capitale e quasi al 40 per cento dei diritti di voto. Quanto basta per far dormire al numero uno Henry de Castries ed all’estabilishement francese sonno tranquilli. In Germania il problema è stato risolto diversamente. I tre maggiori azionisti di Allianz sono il fondo americano Black-Rock con poco più del 5 per cento, Morgan Stanley con poco meno e Commerzbank con l’1,59. Soggetti diversi che non fanno parte di una rete. La rete è invece rappresentata dai 454 mila azionisti tedeschi sui 463 mila totali, che fanno della compagnia la più grande public company della Germania e probabilmente d’Europa, che non ha rappresentanti degli azionisti nel consiglio di sorveglianza ed è ben protetta dagli assalti esterni dai suoi 48 miliardi di capitalizzazione. Generali, che di quell’ossessione è il principale oggetto, non ha la blindatura di Axa, né la rete immensa di azionisti nazionali o la capitalizzazione di Allianz. Il suo azionariato fa perno sul 13,5 per cento posseduto da Mediobanca, sul 4,5 per cento affidato dalla Banca d’Italia a un blind trust, e sul 14 per cento circa che è la somma dei vari azionisti italiani di rilievo. Siamo quasi al 30 per cento e basterebbe, se non fosse per due ragioni: la prima è che quell’azionariato non è così stabile come poteva essere qualche tempo fa, la seconda è che la capitalizzazione di Generali che non arriva a 20 miliardi non viene considerata sufficientemente grande a proteggere da tentazioni di altri. Il fatto che Generali resti italiana è oggettivamente importante. E’ uno dei tre grandi gruppi finanziari del paese con Intesa e Unicredit, quello più multinazionale, è uno dei pochi grandi gruppi in assoluto che ha ancora l’Italia e in più ha quella cassaforte che vale circa 460 miliardi di euro, più di un quarto del pil del paese e poco meno di un quarto del suo debito pubblico. Quindi è un argomento sul quale non è il caso di scherzare. Il problema è se è possibile e opportuno affrontarlo con le stesse logiche dei tempi di Cuccia. Non sembrano in realtà esserci assalitori in agguato. A proteggere Trieste in questi mesi più che i suoi azionisti e la sua capitalizzazione è il rischio Italia, che tiene lontani gli investitori soprattutto dagli asset finanziari. Ma questi mesi auspicabilmente finiranno e il rischio Italia si attenuerà e forse nel giro di un anno o due potrebbe addirittura scomparire nella percezione degli investitori. A quel punto tuttavia non ci sarebbe ancora da agitarsi troppo perché un’altra difesa viene da un cambiamento importante anche se ancora poco avvertito: il tramonto del gigantismo. Dopo vent’anni in cui il mantra è stato la dimensione ora quel mantra viene messo in crisi dalle difficoltà crescenti della gestione della complessità. Superata una certa soglia dimensionale i vantaggi si attenuano poi scompaiono quindi si trasformano in svantaggi quando il controllo dei processi e dei rischi diventa troppo articolato e complesso. Crescere continua ad essere importante, ma la dimensione assoluta ha cessato di essere un valore in se. Sommando le Generali ad un altro colosso (che solo un colosso potrebbe mangiarsela e colonizzarla) probabilmente quella soglia della complessità verrebbe facilmente superata e non è affatto detto che i regolatori e i mercati vedrebbero la cosa di buon occhio. Diverso è il caso di investitori finanziari. Non allarma la Germania il fatto che i maggiori azionisti di Allianz siano le americane BlackRock e Morgan Stanley, così come non dovrebbe allarmare se un giorno le Generali avessero tra i propri azionisti un qualche fondo, sovrano o non. Alla fine tuttavia la sola vera difesa viene dall’efficienza della gestione: se una società guadagna e cresce la sua capitalizzazione lieviterà e più difficile sarà scalarla. Che le Generali abbiano azionisti italiani stabili è certamente un obiettivo positivo, a condizione però che non diventi un ostacolo a quella efficienza e capacità di crescita che sono nell’interesse della compagnia, dei suoi azionisti e del paese intero, oltreché l’unica vera credibile difesa dagli attacchi esterni. In fondo, se la stabilità dell’assetto proprietario delle Generali è da vent’anni un problema irrisolto, la ragione è che i grandi azionisti per troppo tempo sono stati un ostacolo all’efficienza e alla crescita. C’è da sperare che abbiano cominciato a svegliarsi. Nel grafico qui a sinistra, la raccolta premi (vita e danni) dei principali gruppi assicurativi mondiali e le relative market cap di Borsa Allianz è saldamente al primo posto