DI DARIO FERRARA

Se il mobbing lamentato dal lavoratore non sussiste, non si può escludere che il datore possa comunque essere condannato a risarcire al dipendente il danno non patrimoniale rispetto a singole condotte mortifi canti, accertate in giudizio, nonostante manchi l’unicità del disegno persecutorio contro il prestatore d’opera. Lo precisa la sentenza 18927/12, pubblicata il 5 novembre dalla sezione lavoro della Cassazione. È accolto contro le conclusioni del pm il ricorso proposto dalla lavoratrice mandata anzitempo in pensione dal datore perché anziana e non più in grado di stare al passo con i tempi. La donna arriva a un drammatico tentativo di suicidio, ma la scelta va ricondotta più a una sua parossistica risposta emotiva ai problemi sul lavoro che a una reale condotta persecutoria dei responsabili e dei colleghi nella farmacia presso cui era addetta. Il punto è che con l’introduzione del sistema informatizzato e l’assunzione di nuovi collaboratori la lavoratrice non si ritrova più nelle attività da svolgere. Ma attenzione, la motivazione della Corte d’appello che esonera il datore da ogni obbligazione risarcitoria risulta contraddittoria: il giudice del merito è infatti tenuto a esaminare tutti i singoli episodi potenzialmente vessatori denunciati dal lavoratore, anche nell’ipotesi in cui non si confi gura a carico del datore e dei colleghi l’unicità dell’intento persecutorio nei confronti del dipendente che reclama il danno non patrimoniale. E in particolare bisogna accertare l’eventuale sussistenza di condotte mortifi canti a carico del prestatore d’opera con responsabilità ascrivibili al datore.