Non solo le grane fiscali connesse all’operazione Brontos. Da ieri è ufficiale che Unicredit sarà costretta a pagare lo scotto di un’altra delle eredità lasciate dal precedente amministratore delegato, Alessandro Profumo: la spinta all’internazionalizzazione. Una leva su cui l’ex ad aveva investito molto e che, con il senno di poi, almeno di questi tempi, si è rivelata controproducente. È infatti noto da ieri che quella di Piazza Cordusio, complice la massiccia presenza sullo scacchiere mondiale, sarà l’unica banca italiana che rientra tra quelle sistemiche globali. Unicredit è, infatti, stata inserita nella lista delle 29 istituzioni finanziarie, le cosiddette G-Sifi, che a partire da fine 2012 dovranno adottare norme di salvaguardia in caso di liquidazione – finalizzate a evitare che il costo di eventuali loro fallimenti ricada sui contribuenti – e che dal 2016 dovranno rispettare un requisito di capitale aggiuntivo rispetto a quello già previsto da Basilea 3 per fronteggiare le perdite. Nel dettaglio, a tali gruppi è richiesto di dotarsi di un capitale aggiuntivo per assorbire eventuali perdite che, a seconda della loro rilevanza sistemica, è calcolato in una forchetta compresa tra l’1 e il 2,5% degli asset ponderati per il rischio (Risk weighted assets o Rwa) e che si sommerà al 7% previsto per il common equity con Basilea 3. Questo requisito aggiuntivo dovrà essere raggiunto gradualmente, a partire dal 2016 e nell’arco di tre anni. Quella giunta ieri è una notizia che, ai piani alti dell’istituto di Piazza Cordusio, era nell’aria già da un po’. Forse, però, una vaga speranza di ruscire a non entrare in questa sorta di black list (solo per il fatto che gli sforzi rischiesti sono maggiori) c’era. Tant’è che, ancora di recente, l’attuale ad Federico Ghizzoni ripeteva come uno degli elementi fondamentali per comprendere se l’atteso aumento di capitale si farà omeno fosse proprio l’eventualità di rientrare o no tra gli istituti a rilevanza sistemica. È anche per questo motivo che la possibilità di una ricapitalizzazione imminente per Piazza Cordusio sta ormai prendendo corpo più che mai. Quel che, tuttavia, ancora chiaramente non si riesce a comprendere è la sua tempistica. Stando a recenti indiscrezioni, infatti, il fatidico annuncio sarebbe potuto arrivare in corrispondenza dell’approvazione dei conti del terzo trimestre, ossia il 14 novembre (o al più tardi il 15). Sul possibile ammontare, che potrebbe variare grosso modo dai 5 agli 8 miliardi, pende invece la possibilità di potere conteggiare o meno gli strumenti cashes emessi in constanza dell’aumento di capitale del 2009. Unicredit sta, infatti, discutendo con le Authority di competenza (Bankitalia in prima fila) per apportare le necessarie modifiche a queste obbligazioni in modo da poterle considerare nel core tier 1, ma non è detto che ci riesca. Non è tutto. Sempre stando alle indiscrezioni, il consorzio a garanzia della nuova ricapitalizzazione potrebbe essere guidato da Mediobanca (guarda caso, istituto partecipato da Unicredit in qualità di primo socio). Tuttavia, a causa della nuova ondata di vendite che ha travolto le Borse e soprattutto le banche (ieri Unicredit ha ceduto il 6,55% a 0,77 euro, Bpm il 5,97% a 0,366 euro e Intesa Sanpaolo il 4,81% a 1,12 euro), c’è chi non esclude che l’operazione possa slittare, in attesa di tempi migliori. E con l’annuncio dell’aumento slitterebbe anche la presentazione, strettamente connessa, del nuovo piano industriale della banca milanese. Quel famoso piano che, a dirla tutta, sarebbe già dovuto essere stato annunciato soltanto qualche tempo dopo l’insediamento di Ghizzoni, avvenuto a inizio ottobre dello scorso anno. E che, allora, non si poteva certo immaginare che avrebbe dovuto contemplare una nuova ricapitalizzazione (la terza in meno di tre anni, visto che la banca ha già battuto cassa tra i soci nel 2009 e nel 2010).