L’incertezza degli investitori circa il futuro dell’Italia ha mantenuto alti i rendimenti dei titoli di Stato italiani. Un ottimo affare per chi non crede al default di Roma. E lo sarà ancora di più per chi li acquista lunedì 28, in occasione del Btp day, quando non si pagheranno commissioni 

di Stefania Peveraro

 

La prima settimana del governo Monti non è stata affatto una passeggiata per il mercato obbligazionario italiano, che venerdì 25 novembre ha anche visto i rendimenti in asta dei Bot semestrali e dei Ctz a due anni schizzare a livelli record, e lo spread di rendimento tra Btp e Bund a due anni toccare in mattinata i massimi storici di 772 punti base, mentre il differenziale sui 10 anni è tornato sopra i 520 pb.

E poco importa che nel pomeriggio la tensione si sia allentata, in vista di un accordo europeo sugli Eurobond, con la cancelliera Angela Merkel che in serata sembrava finalmente disposta a scendere a più miti consigli dopo i ripetuti «nein» delle ultime settimane (si veda articolo a pag. 8).

I tassi di mercato restano ancora a livelli storicamente molto elevati. A indicare che, nella mente degli investitori internazionali, l’incertezza sul futuro dell’Italia e dello stesso euro è ancora molto forte. Tuttavia, un approccio più razionale potrebbe presentare questa situazione una grande opportunità di investimento, perché appunto i rendimenti offerti in questo periodo sono davvero corposi.

E lo saranno ancora di più se l’acquisto sarà fatto lunedì 28 novembre, in cui la stragrande maggioranza delle banche e degli intermediari italiani ha aderito al cosiddetto Btp day, l’iniziativa di Abi, Assiom-Forex e Assosim, e che permetterà a risparmiatori privati e aziende di comprare titoli di Stato italiani senza pagare commissioni di negoziazione o spese fisse di eseguito (ma anche di eventuale non eseguito o revoca).

La replica è prevista per il 12 dicembre, in occasione dell’asta Bot a un anno. In quel caso non si pagheranno le commissioni di sottoscrizione.

Un’iniziativa alla quale avevano subito dato il loro appoggio, nei giorni più neri per i Btp un paio di settimane fa, l’allora numero uno di Intesa Sanpaolo Corrado Passera (oggi ministro dello Sviluppo Economico e delle infrastrutture), il ceo di Unicredit Federico Ghizzoni e il direttore generale di Mps Antonio Vigni.

L’appoggio delle grandi banche era arrivato in contemporanea a una pioggia di annunci di politici, manager e imprenditori che hanno scelto di dare fiducia all’Italia acquistando personalmente titoli di Stato, in risposta all’appello a pagamento pubblicato sul Corriere della Sera da Giuliano Melani, agente di una società di leasing fino a quel momento quasi sconosciuto. L’iniziativa di Melani a sua volta va in scia all’iniziativa «L’Italia c’è», lanciata quest’estate da MF-Milano Finanza per il varo di precise misure taglia-debito.

Per esempio il varo di un Fondo in cui far confluire parte del patrimonio pubblico (tra cui BancoPosta e Ferrovie) le cui quote sarebbero poi sottoscritte, tramite speciali emissioni di titoli di Stato, dalle fasce abbienti del Paese. Oppure il pagamento di parte dei crediti della pubblica amministrazione in Bot e Btp. Un’iniziativa, «L’Italia c’è» sostenuta anche dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, tanto che il segretario generale alla presidenza, Donato Marra, lo scorso agosto aveva inviato una lettera a questo giornale specificando che il Quirinale avrebbe seguito «con attenzione e interesse gli sviluppi dell’iniziativa che il giornale promuove, nella convinzione che l’Italia è ancora un Paese su cui scommettere».

Occasione d’oro. Ma, orgoglio italiano a parte, resta il fatto che a questi prezzi i titoli di Stato della Repubblica sono davvero attraenti. Certo, c’è una vasta schiera di investitori esteri che ormai ritiene l’Italia un Paese quasi in default e che per questo non ne vuole sapere di Bot e Btp, ma c’è da chiedersi quali siano le reali probabilità che non si trovi una soluzione al problema del debito europeo. Perché negli ultimi giorni i mercati hanno chiaramente percepito che non solo l’Italia, ma anche la Francia, l’Austria e persino la Germania hanno problemi. I rendimenti a 10 anni della Francia, che è ancora un Paese con rating tripla A come la Germania, viaggiano ancora attorno al 3,7%, livello lievemente inferiore al massimo di una settimana fa del 3,8%, con uno spread sul Bund sopra i 140 punti base, dopo aver toccato in precedenza addirittura i 200 punti. E i rendimenti a 10 anni della stessa Germania sono tornati ultimamente in prossimità del 2,3%, dopo che a inizio mese si erano riportati sui minimi di settembre, coincidenti con i minimi storici, attorno all’1,7%.

In altri termini, i mercati hanno capito che i politici europei non possono permettersi un default dell’Italia. Non a caso Investbanca in un report appena pubblicato ha dato il 45% di probabilità all’assenso della Germania a un intervento della Banca Centrale Europea in veste di prestatore di ultima istanza (sulla falsariga della Fed), facendosi carico dell’acquisto dei titoli di Stato europei. La sostanziale monetizzazione del debito che ne deriverebbe comporterebbe l’allentamento della tensione sugli spread di tutti i paesi europei coinvolti, una riduzione del merito di credito dei titoli tedeschi e una svalutazione dell’euro rispetto a dollaro e sterlina. In uno scenario del genere, andrebbero aumentati gli investimenti in Btp a scadenza più lunga, alleggerendo invece le posizioni sui Bund.

Sempre secondo Investbanca avrebbe il 45% di probabilità anche lo scenario alternativo, che vedrebbe la Germania ferma sulle sue posizioni circa il ruolo della Bce, ma pronta a negoziare con i partner europei per giungere a un compromesso, che vedrebbe i saldi nazionali di finanza pubblica imposti dalle istituzioni comunitarie, con i Paesi virtuosi orientati al rigore mentre quelli più indebitati sottoposti a politiche di forte riduzione del disavanzo e del debito. Anche in questo caso la speculazione rinfodererebbe le armi, e con essa lo spread di rendimento tra i titoli di Stato periferici e il Bund. Quest’ultimo a sua volta perderebbe in parte l’aura di rifugio sicuro. Nel frattempo l’euro si rafforzerebbe perché a quel punto Eurolandia si sarebbe incamminata su sentiero di riequilibrio dei bilanci pubblici.

 

Lo scenario peggiore per l’Italia, a cui andrebbe una probabilità non superiore al 10%, vedrebbe la Germania dichiarare l’uscita dall’euro e il contestuale ritorno al marco, anzi a un supermarco con pochi altri virtuosi paesi (Olanda, Austria, Finlandia). Solo in quel caso bisognerebbe aumentare il peso dei Bund in portafoglio e ridurre quello dei Btp.

 

I titoli che offrono di più. Le occasioni più ghiotte si trovano certamente nelle scadenze più brevi. Quando il mercato teme il default di un emittente, sono ovviamente le scadenze più vicine quelle ritenute più a rischio di insolvenza. Per questo i rendimenti offerti schizzano al rialzo, spesso superando i rendimenti a più lungo termine. In quel caso si parla di curva dei rendimenti invertita e da qualche settimana ormai l’Italia presenta una curva molto piatta e appunto invertita in alcuni tratti.

Così non deve stupire se venerdì 25 novembre in asta gli 8 miliardi di Bot a 6 mesi sono stati collocati a un rendimento del 6,504% dal 3,535% dell’asta precedente, con un rapporto tra domanda e offerta sceso a 1,47 volte dalle 1,567 volte di ottobre. I 2 miliardi di Ctz a due anni sono stati invece piazzati a un rendimento del 7,814% a sua volta nettamente più alto del 4,628% dell’asta precedente, con un rapporto domanda-offerta sceso all’1,59 da 2,01.

«Questi tassi non sono un indicatore equilibrato della situazione economica corrente e delle sue prospettive. Sono il riflesso di una dinamica di mercato», ha commentato in una nota il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, aggiungendo che simili rendimenti «andranno contrastati con misure credibili, quali quelle che il governo sta elaborando. Confidiamo che nei tempi indicati l’esecutivo darà attuazione alle misure congiunturali e definirà i necessari interventi di struttura».

Detto questo, resta vero che ormai il Bot a un anno rende il 7% e che il Btp a due anni non meno del 7,7%, quando sulla scadenza a dieci anni si porta a casa il 7,30%. Ma le occasioni migliori sul mercato secondario si possono trovare sui Cct e sui Btp indicizzati all’inflazione. Come evidenziato nella tabella a pag. 14, infatti, ci sono dei Cct che, in barba alla teoria finanziaria, si comportano da molto tempo come titoli a tasso fisso, scaricando sul prezzo gli aumenti dei tassi di interesse di mercato. Così si scopre che il Cct a gennaio 2016 oggi tratta poco sopra quota 83 e offre un rendimento dell’11%, poco sopra quello del Cct a settembre 2015 che a sua volta vale 85,5 e offre il 10,86%. Ma nulla sembra più conveniente dei Btpei. Sono quelle obbligazioni che prevedono l’indicizzazione all’inflazione delle cedole e del capitale. Oggi offrono a scadenza rendimenti molto più alti degli strumenti privi di indicizzazione. Per esempio, il Btpei a settembre 2021 tratta a non più di 66,6 centesimi e offre il 9,74% l’anno ipotizzando, in modo prudenziale, un’inflazione media del 2,6% l’anno per i prossimi dieci anni. E il Btpei a scadenza settembre 2012 offre non meno dell’8,66%, scontando un’inflazione non superiore al 2%.

Se i titoli della Repubblica italiana oggi offrono rendimenti così alti, sul mercato si possono trovare titoli corporate e bancari con buon rating che offrono ancora di più. Così, sebbene un acquisto di questi titoli non rientri nell’ambito del Btp day, vale la pena di segnalare che i bond Unicredit a scadenza febbraio 2014 oggi offrono addirittura il 10%, più di quelli di Intesa Sanpaolo al 2017 (che rendono l’8,9%), dei bond del Banco Popolare a ottobre 2014 (9,15%) e di quelli del Montepaschi a febbraio 2015 (7,61%). (riproduzione riservata)