di Giovanni Cagnoli*

Il forte incremento dei tassi sui titoli di Stato italiani pone problemi gravi la cui soluzione appare ormai urgente, se si vuole evitare che le profezie di sventura sull’Italia diventino autoavverantesi. La «casta» non sembra rendersene conto o forse più realisticamente difende interessi personali a ogni livello. Il sostanziale immobilismo del governo e del parlamento fa sì che il costo enorme si scarichi sul Paese e che quindi, per citare Winston Churchill al contrario, «mai un Paese ha pagato cosi tanto a così pochi».

I conti. I tassi sui titoli di Stato sono saliti violentemente negli ultimi tre mesi. Il Tesoro paga ormai il 3,5% a tre mesi, oltre il 6,1% a un anno per arrivare al 6,6% a 10 anni con uno spread rispetto ai Bund di quasi 500 punti base (oltre 580 per la scadenza annuale) su quasi tutta la curva dei rendimenti. Il totale del debito pubblico italiano è di 1.900 miliardi euro e quindi quando l’aumento dei tassi sarà contabilizzato si tradurrà in circa 38-40 miliardi di aggravio per il deficit dello Stato. La duration media è sette anni e quindi l’aggravio è di circa 6 miliardi l’anno a partire da agosto. A fine 2012 i costi aggiuntivi toccheranno 8 miliardi, pari allo 0,5% del pil. A fine 2013, quando teoricamente dovremmo essere in pareggio, saremo a quasi 15 miliardi, cioè quasi l’1% del pil.

 

Ma ci sono altre due implicazioni negative. La prima è la richiesta alle banche europee di ricapitalizzarsi secondo i valori di mercato del debito pubblico in loro possesso. Le pesanti minusvalenze a carico degli istituti italiani (interessante che lo schema approvato dal recente vertice e il contestuale ribasso dei tassi tedeschi generi plusvalenze altrettanto grandi e quindi molto inferiori necessità di capitale per molte disastrate banche tedesche e francesi) provoca elevate necessità di capitale aggiuntivo. La ricapitalizzazione delle banche italiane richiesta in condizioni di mercato come quelle odierne è di fatto un vero esproprio degli attuali azionisti, in gran parte italiani, a vantaggio dei nuovi azionisti, la cui nazionalità è incerta. Speriamo che tutto vada bene.

Un ulteriore e molto sottovalutato effetto di secondo livello sarà l’automatica tendenza delle banche italiane a restringere fortemente il credito in Italia con negativi effetti sul tasso di crescita dell’economia. Di fatto stiamo già assistendo a un aumento dei tassi di circa 200 punti base applicato a tutti i contratti su cui è possibile aggiornare il tasso di interesse, quindi paradossalmente gran parte del credito a breve con un costo supplementare immediato stimabile in 6-7 miliardi l’anno, scaricato per lo più sulle piccole e medie imprese che non hanno accesso diretto al mercato dei capitali e quelle per le quali si invoca lo sviluppo.

La seconda e più subdola forma di freno allo sviluppo sarà un pesante restringimento del credito, operato allo scopo di ridurre l’ammontare degli asset ponderati per il rischio (Risk weighted assets – Rwa) e quindi ridurre la necessità di capitale da richiedere agli azionisti per soddisfare le «regole europee» . Il capitale delle banche italiane è in gran parte in mano alle Fondazioni e nel caso delle popolari soprattutto a piccoli azionisti. L’unica strada per ridurre l’ammontare della richiesta di denaro ai soci in condizioni così penalizzanti è il restringimento del credito alle imprese, sempre alla faccia dell’invocato sviluppo.

Non c’è migliore garanzia di una riduzione del credito combinata con un aumento del suo costo, accoppiata a sua volta con una manovra fiscale fortemente restrittiva che induca una recessione anche forte. In queste condizioni l’ipotesi di crescita zero nel 2012 sarebbe da considerarsi un successo clamoroso, ma non è realistico pensare che avvenga proprio questo. L’Italia andrà in recessione, alla faccia del tanto decantato decreto per la crescita (di cui peraltro si fatica a cogliere qualcosa di concreto). L’unico riferimento storico di una stretta violenta sia monetaria che fiscale è la dissennata azione della Federal Reserve americana nel 1930. Le conseguenze sono tragicamente note a tutti e sono state studiate dal presidente Ben Bernake in modo approfondito. Lo studio ha fruttato a Bernake il soprannome di «Helicopter Ben» per la scelta definita a priori, con un famoso studio del 2003 e poi realizzata nei fatti dal 2008, di inondare gli Usa con nuova liquidità creata stampando moneta. In Italia invece è richiesto il pareggio di bilancio nel 2013, la riduzione almeno al 90%, per poi arrivare al 60%, del rapporto debito/pil, senza che naturalmente la Bce stampi moneta, perché questo sarebbe anatema per i rigoristi tedeschi.

Di certo solo una delle due impostazioni è corretta. Certo è anche che l’impostazione rigorista tedesca produce disoccupazione e recessione in Italia, mentre la Germania gode nello stesso momento di piena occupazione o quasi, tassi di interesse bassissimi, e cambio dell’euro molto favorevole. Per fortuna che siamo tutti europei!

 

Le azioni. Bisogna con una rapidità fulminea e una forza d’urto altrettanto massiccia ridurre il costo del debito statale in Italia e puntare a portare in brevissimo tempo lo spread a 200 bp. Il che, collegato a un logico rialzo dei tassi tedeschi, dovrebbe consentire di avere rendimenti a 10 anni intorno a 5% ma soprattutto tassi a 6-12 mesi intorno al 2,5%. Inutile aspettare che il fondo salva Stati o i tedeschi o gli eurobond si facciano carico dei nostri problemi. Inutile aspettarsi che tedeschi e francesi abbiano la capacità di controllare perfettamente l’evolversi della situazione e di intervenire un minuto prima del punto di rottura per evitare conseguenze nefaste anche per loro. I mercati finanziari hanno tempi di risposta molto più rapidi del consenso politico. Inutile aspettarsi che la Bce monetizzi debito come la Fed, in primis perché nel suo mandato non rientra proteggere l’occupazione bensì solo la stabilità monetaria, e poi perché i paesi di matrice tedesca lo impediranno a tutti i costi. Dobbiamo cavarcela da soli e presto. Ecco allora alcune idee:

1. Riconoscere esplicitamente il problema dello spread e farlo diventare una priorità nazionale. Sapere tutti che il problema è questo e solo questo è un messaggio importantissimo. Le nostre banche sono assolutamente sane. Le famiglie italiane non sono indebitate mentre le imprese nazionali, sia piccole che grandi, riescono a eccellere sui mercati mondiali. Il nostro paese è bellissimo. Abbiamo troppo debito, bassa credibilità e dobbiamo ridurre il costo del debito. Non c’è domani per nessuno se non si riduce il costo del debito. Qualsiasi azione efficace in tal senso è bene. Qualsiasi atto che lo aumenta è un male. Bisogna comunicare l’urgenza e l’ineluttabilità di questa compagna di utilità nazionale. Inutile fare barricate politiche o avanzare istanze redistributive se non ci sarà più nulla da distribuire. Bisogna far presto perché come dimostrato ogni mese di ritardo costa al Paese 500 milioni in più per ciascun anno da qui al 2025. Un aggravio insostenibile.

 

2. Inutile pensare a una soluzione immediata e salvifica. Ridicolo pensare a una mega-patrimoniale. Non ci sono fonti di liquidità alle quali attingere tanto denaro. Bisogna rassegnarsi ad almeno 4-5 anni di rigore complessivo con un graduale miglioramento. Anni, non mesi o giorni. Dobbiamo essere rigorosi e sapere che il tempo, se il trend è positivo, ci aiuta.

 

3. Dobbiamo combattere l’evasione fiscale, che è intollerabile. Unico mezzo per farlo è collegare esplicitamente reddito dichiarato e patrimonio (il che si può fare facilmente con le informazioni degli intermediari finanziari e dal catasto). In caso di disparità eclatante scatta l’accertamento automatico. Si può pensare a una forma di patrimoniale innovativa e socialmente accettabile, che tassa il patrimonio immobiliare e mobiliare con un aliquota abbastanza elevata (1,5 o 2%) da cui però sono deducibili le tasse personali cumulate pagate per esempio negli ultimi tre o cinque anni. Si verrebbe a tassare il patrimonio che non è frutto di lavoro o che non ha generato tasse per lo Stato. La tassa dovrebbe essere permanente e non una tantum.

 

4. La spesa pubblica va ridotta in modo evidente. I costi della politica sono francamente intollerabili. La spesa sanitaria si può ridurre con una azione di benchmark rapida e incisiva. Le pensioni di anzianità sono semplicemente incompatibili con la situazione in essere e protestare per il loro mantenimento è puramente demagogico nella maggior parte dei casi. Il passaggio al metodo contributivo è ineluttabile. Meglio farlo subito. Di questo passo i giovani non solo non avranno le pensioni di anzianità ma dovranno rinunciare anche alla pensione di vecchiaia.

 

5. Le famose liberalizzazioni vanno fatte e spiegate. Difendere la sostanziale impossibilità di licenziare significa discriminare chi è oggi nel mondo del lavoro a scapito di chi è fuori. Ammortizzatori sociali, ma anche finalmente vera meritocrazia nelle aziende, nelle università, nella scuola, nella pubblica amministrazione. Anche qui la strada è molto lunga ma bisogna pur iniziare.

 

6. Infine, ed è questa forse la vera novità che possiamo dare ai mercati, dobbiamo dare garanzie sul nostro debito. Qualsiasi azienda troppo indebitata offre garanzie ai propri creditori per avere condizioni di credito non vessatorie. Se l’Italia si impegna su obiettivi di riduzione del deficit impegnativi ma credibili solo a parole o anche nella Costituzione, ciò non vale nulla o quasi. Se invece diamo formalmente in garanzia sul nostro debito alcuni asset che verranno forzosamente venduti a vantaggio dei creditori solo nel caso non rispettassimo gli impegni di riduzione del deficit, possiamo sperare in risultati tangibili. Si tratta di una fideiussione reale che sia una specie di Fondo salva-Italia. Una nostra iniziativa autonoma che dimostri alla comunità internazionale che ci facciamo carico consapevolmente del problema e che siamo disposti a pagare davvero se non rispettiamo gli impegni per recuperare finalmente credibilità internazionale.

 

Cosa mettere a garanzia? Si potrebbe pensare agli immobili di proprietà dello Stato, alle partecipazioni pubbliche (EnelEniFinmeccanica, Poste, Rai, Cassa depositi e prestiti), alle quote delle banche di proprietà delle Fondazioni (sono enti locali a tutti gli effetti e quindi proprietà della collettività e non dei loro amministratori), se tecnicamente fattibile all’oro detenuto dalla Banca d’Italia (100 miliardi di euro ai valori attuali), ma anche con sforzo di fantasia e con coraggio al nostro patrimonio artistico o perfino a un pezzo della nostra sovranità nazionale (per esempio il diritto di imporre una tassa patrimoniale da parte dei creditori).

Dovrebbero essere beni reali di tale entità da convincere tutti che, pur di non essere escussi sulla nostra fideiussione, faremo di tutto per rispettare gli impegni di riduzione del deficit. Questo passo sarebbe probabilmente in grado a sua volta di scatenare una forte tensione collettiva interna al rispetto degli impegni. I cittadini italiani sarebbero incentivati a essere virtuosi da una forte penalità (che sia davvero insostenibile per qualsiasi politico) che ci siamo autoimposti per attuare un processo di risanamento di cui però potremmo gestire con minore furore iconoclastico i tempi e i modi. È il costo dell’antica non virtù, il riscatto dagli anni in cui il consenso elettorale è stato comprato con il debito pubblico. Ma funzionerebbe davvero e porterebbe probabilmente a una verifica immediata delle azioni di chi ci governa. Aumenta lo spread? Significa che stiamo andando verso il baratro. Diminuisce lo spread? Bene. Stiamo creando le condizioni per essere di nuovo una comunità solvibile, autonoma e capace di sedere al tavolo delle nazioni con orgoglio. (riproduzione riservata)

*partner, Bain & Co.