L’estensione a tutti del sistema misto riguarderà i nati tra il 1946 e il 1959. Limitato l’impatto su assegno e conti dello Stato. Invece l’abolizione dell’anzianità farà risparmiare 40 mld, ma spaventa chi è vicino alla pensione 

di Roberta Castellarin e Paola Valentini

L’Italia diventerà un Paese di vecchi e deve prepararsi ad affrontare l’emergenza. Tra meno di 20 anni per ogni cittadino under 15 anni ci saranno due ultrasessantacinquenni. È un caso anomalo a livello mondiale e rappresenta un vero banco di prova per un nuovo welfare europeo. Nel 2030 l’Italia sarà il primo Paese al mondo nel quale il numero di anziani supererà quello dei bambini.

Da qui la necessità di nuovi interventi per ridurre la spesa per le pensioni di oggi e di domani. A partire da calcolo contributivo pro rata per tutti e dall’introduzione di una fascia flessibile di uscita dal lavoro tra i 63 e i 67 anni, con l’obiettivo di eliminare le pensioni di anzianità. In questo modo, secondo il Cerp (l’istituto di ricerca previdenziale fondato dalla neo-ministro del Welfare Elsa Fornero), si potrebbe completare la riforma del sistema previdenziale italiano in modo da renderlo equo e sostenibile. L’introduzione del calcolo contributivo pro-rata per tutti mira a dire addio alle pensioni totalmente retributive in anticipo rispetto alla tabella di marcia. Si tratta di un intervento poco rilevante dal punto di vista del risparmio per lo Stato, ma importante sul fronte dell’equità del sistema. «Il contributivo pro rata dà pochi vantaggi dal punto di vista economico, perché la platea degli interessati sarebbe limitata a poche migliaia di lavoratori, che subirebbero un taglio dell’assegno nell’ordine dell’ 1-2%», sottolinea Alberto Brambilla, presidente del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale del ministero del Welfare. «Ma è una riforma molto importante dal punto di vista etico».

Quali lavoratori saranno interessati da questa riforma? MF-Milano Finanza lo ha chiesto a Progetica, società di consulenza indipendente che ha fotografato (in base ad anno di nascita e inizio attività lavorativa) l’identikit di chi, con le attuali regole di uscita dal lavoro, passerebbe dal sistema retributivo a quello misto.

Coinvolti sarebbero, per esempio, i lavoratori nati tra il 1955 al 1959 che hanno iniziato a versare i contributi a 16 anni. Ma la novità riguarda anche chi è nato tra il 1946 e il 1952 e ha iniziato a lavorare a 25 anni. Progetica ha anche analizzato quale assegno previdenziale si potrebbero aspettare rispetto all’ultimo stipendio. «Le simulazioni, differenziate tra dipendenti ed autonomi, mostrano tassi di sostituzione generalmente superiori al 70%», dice Andrea Carbone di Progetica. «Ciò accade perché i profili considerati sono retributivi e non lontani dalla data di pensionamento. La componente contributiva non abbassa infatti più di tanto i tassi di sostituzione. In taluni casi, al contrario, il superamento dei 40 anni di contributi, limite massimo per il sistema retributivo, avrebbe effetti benefici, in quanto gli anni aggiuntivi verrebbero valorizzati con il sistema contributivo».

In generale, le stime mostrano impatti modesti per i lavoratori dipendenti, con differenze comprese tra -2% e +1% rispetto al sistema attuale.

Differenze lievemente più marcate per gli autonomi, complice la più bassa aliquota contributiva, con variazioni tra +2% e -6%. Queste simulazioni dovranno essere aggiornate quando sarà presentata la riforma definitiva. Che dovrebbe introdurre una novità strutturale: una fascia flessibile di uscita dal lavoro a 63-67 anni che comporterebbe il superamento delle pensioni di anzianità. Questa seconda parte della riforma avrebbe un effetto importante sui conti dello Stato, perché potrebbe portare a risparmi per 40 miliardi nel giro di cinque anni. Il superamento dell’anzianità sarebbe importante anche perché la distanza tra l’età di pensionamento effettiva e quella massima possibile oggi in Italia è maggiore rispetto a quanto accade nei principali Paesi europei. in Italia non solo si va presto in pensione, ma si vive anche mediamente più a lungo che altrove. L’Inps quindi deve pagare pensioni per 30-40 anni a chi va in pensione anche prima dei 60 anni. Il tema delle pensioni di anzianità è stato solo parzialmente riformato con l’introduzione del meccanismo di adeguamento automatico dell’età pensionabile all’aspettativa di vita (sulla base dei dati Istat) e con le finestre mobili di attesa di 12 o 18 mesi (rispettivamente per lavoratori dipendenti e autonomi) per percepire la pensione dal momento in cui si maturano i requisiti.

Si tratta però di interventi che non risolvono il problema delle pensioni di anzianità percepite dopo 40 anni di contributi da chi oggi ha 58 o 59 anni. Secondo gli ultimi dati Inps, nel 2010 su 180 mila pensioni liquidate 125 mila sono state di questo tipo. Le altre 55 mila si riferiscono a lavoratori che hanno meno di 40 anni di versamenti e hanno lasciato l’impiego grazie il sistema delle quote. Inoltre il peso dei trattamenti di anzianità resterà notevole anche in futuro. La percentuale di pensionati «giovani» resterà insomma molto alta. Basti pensare che nel 2015 il 20% dei pensionati avrà meno di 65 anni e tale percentuale è destinata a non scendere fino al 2025. Da qui il problema della sostenibilità del sistema, che deve fare i conti con pensionati giovani, aspettative di vita in crescita e assegni troppo ricchi rispetto ai contributi versati. «La verifica dell’autosufficienza del sistema pensionistico italiano è fattibile attraverso i dati di bilancio di Inps e Inpdap», sottolinea Massimo Angrisani, fondatore del Centro Studi Logica Previdenziale. «Per il 2011 l’Inps registra nel proprio bilancio preventivo entrate contributive pari a 151,6 miliardi e prestazioni istituzionali, incluse quindi quelle assistenziali, pari a 223,9 miliardi, rilevando un disavanzo pari a 72,3 miliardi». Tale disavanzo è coperto da trasferimenti da parte dello Stato per 90,2 miliardi, di cui 66,6 per la gestione interventi assistenziali. Ma buona parte di questa gestione è in realtà utilizzata a copertura della spesa pensionistica per un importo che, in base ai dati del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale, già nel 2008 risultava largamente superiore ai 30 miliardi. Dal canto suo, l’Inpdap registra per il 2011 un disavanzo di 9,5 miliardi. Tale disavanzo, il cui carattere è strutturale (come dimostra il trend decisamente in crescita) dovrà essere coperto dallo Stato. «Lo Stato, di conseguenza, per consentire a Inps e Inpdap di pagare le pensioni dovrà continuare a utilizzare una parte rilevante del denaro pubblico, che altrimenti potrebbe essere impiegata per investimenti necessari alla crescita e allo sviluppo del sistema Paese», fa notare Angrisani.
Oltre al tema della sostenibilità del sistema, c’è la questione dell’adeguatezza delle prestazioni. «Le rendite pensionistiche obbligatorie sono già oggi in molti casi insufficienti a garantire un tenore di vita dignitoso», ha sottolineato di recente Antonio Finocchiaro, presidente della Covip. E lo saranno ancora meno con il sistema contributivo, che nella maggioranza dei casi offre assegni che copriranno il 50-60% dell’ultimo stipendio, come emerge da uno studio Banca d’Italia. «Eppure nel dibattito sulla messa in sicurezza dei conti pubblici non c’è alcun riferimento all’adeguatezza delle rendite pensionistiche», aggiunge Finocchiaro. «Oltre che sul fronte della spesa pubblica, saranno dunque necessari cambiamenti anche nella spesa privata, con un incremento di rilievo nei costi per il settore sanitario, assistenziale e della sicurezza sociale». (riproduzione riservata)