VITTORIA PULEDDA

Accidenti ai regolatori, verrebbe da dire. Anche per le assicurazioni, come per le banche, le richieste delle autorità di vigilanza rischiano di rivelarsi procicliche; in altre parole, di prescrivere rimedi che aggravano il male. È il caso dei parametri di Solvency 2: avevano assegnato ai titoli governativi un assorbimento di capitale limitatissimo, adeguato al fatto che fino all’altro giorno questa categoria di asset era considerata a rischio zero e dunque le compagnie di assicurazioni avevano da qualche tempo cominciato a mettere fieno in cascina di questa categoria di impieghi, anche oltre i limiti di legge per gli investimenti relativi alle riserve tecniche. E ora, questa “lungimiranza” da parte delle compagnie che si stavano adeguando per tempo alle indicazioni future di Solvency rischia di ritorcersi contro di loro, dopo che i bond statali nel giro di pochi mesi sono diventati una specie di asset tossici. Solo all’inizio degli anni Duemila la presenza di azioni nei forzieri delle compagnie era più massiccia; poi era stata la volta dei titoli strutturati (fonte anche loro di non poche perdite, specie a livello europeo) e solo più di recente la strada verso Solvency 2 aveva appunto suggerito un cambiamento di rotta a vantaggio dei bond governativi. Che, dal 2008 ad oggi, erano rimasti più o meno stabili, fino all’esplosione della crisi più acuta, a metà estate.
Ma a differenza di Basilea e dei diktat dell’Eba per le banche, in campo assicurativo si procede con più cautela e anzi a quanto sembra le nuove regole di Solvency 2 che dovevano entrare in vigore all’inizio del 2013 slitteranno di un anno almeno. Se ne sta parlando ed è probabile che sia questa la linea di massima verso cui si procederà: nessuno vuole rischiare in questo momento di appesantire gli operatori e il mercato con nuove regole e magari nuove richieste di mezzi freschi.
Il problema è che le assicurazioni europee hanno in pancia, secondo le ricostruzioni del Wall Street Journal, ben 300 miliardi di euro di obbligazioni pubbliche italiane. Non solo, secondo i calcoli di Barclays (relativi al primo semestre 2011) i potenziali problemi non si fermano all’Italia: l’esposizione verso i bond governativi ad esempio di Grecia, Irlanda e Portogallo era piuttosto sostenuta per Axa (mentre è minima per Zurich); la compagnia francese è sovrappesata (rispetto al campione di assicurazioni prese in considerazione) anche rispetto ai bond italiani (per quanto resti ben dietro ovviamente ai gruppi italiani stessi) e sempre Axa ha anche molti titoli di Stato tedeschi (insieme alla Phoenix) anche se la parte del leone nel suo portafoglio la fanno le obbligazioni francesi. Allianz invece ha maggiori Bund in pancia ma complessivamente sembra avere un portafoglio di titoli governativi molto ben differenziato nelle varie aree geografiche (e con posizioni più leggere della media del campione per quanto riguarda Spagna, Grecia, Irlanda e Portogallo), a riprova dell’articolazione molto internazionale del gruppo tedesco.
Però, e questa è la considerazione più rassicurante visto il momento, nessuno si aspetta una raffica di aumenti di capitale nel settore assicurativo, sulla falsariga di quello che sta succedendo in quello bancario. I due settori infatti hanno molti punti di contatto la crisi dei mercati finanziari erode gli attivi di entrambi, rendendo necessarie severe svalutazioni ma il rapporto con la clientela è profondamente diverso perché la pressione sul versante della liquidità necessaria a far fronte alle eventuali richieste della clientela che per la banca possono essere a vista non esiste per le assicurazioni. E questo già allenta le tensioni. Inoltre, le banche con poco capitale non fanno prestiti, quindi incidono sull’andamento dell’economia e dunque anche sotto questo profilo sono curate con maggior attenzione dai regolatori.
Sul lato della solvibilità invece i ragionamenti sono analoghi per banche e assicurazioni. E non c’è dubbio che in questa fase gli investimenti finanziari a fronte delle riserve tecniche e sui libri di proprietà siano falcidiati dalla crisi, come si sta vedendo dai bilanci dei primi nove mesi delle compagnie italiane. Che, ancora una volta sulla falsariga di quanto avviene per le banche, hanno criteri prudenziali svantaggiosi rispetto alla concorrenza. Basti guardare al Solvency appena dichiarato da Allianz, pari a 179 (Zurich viaggia intorno a 200), rispetto al 118 di Generali, che tuttavia “diventa” 137 applicando gli stessi criteri tedeschi sugli immobili e utilizzando gli sgravi sulle minusvalenze teoriche sui titoli governativi (di cui Generali e la stessa Unipol non si sono servite, perché in Italia chi applica la direttiva Isvap ha le mani più legate in termini di distribuzione dei dividendi). Per tutti, gruppi italiani ed europei, resta il vincolo di non veder dimagrire oltre un certo livello le riserve tecniche. Però quando e come scatti la soglia di attenzione varia da compagnia a compagnia. Dipende, insomma, da come è ripartita la retrocessione degli incrementi (e di conseguenza delle perdite) delle polizze vita (in genere l’80% resta alla compagnia e il 20% va agli assicurati) e ancora, come e su che ammontare di polizze scatta il minimo garantito sui prodotti vita tradizionali. Ad esempio, Generali ha polizze di questo tipo per circa 259 miliardi e il tasso medio delle garanzie è intorno al 2,25%. Il che significa banalizzando il ragionamento che se sceglie asset (finora) considerati blindati, come il bund tedesco, ci rimette soldi ogni volta che incassa una cedola e, al contrario, rischia di esporsi a rischi notevoli sul fronte della solvibilità se sceglie obbligazioni più “aggressive” in termini di rendimento, come i Bpt.
L’elemento positivo, però, è che il combined ratio è in miglioramento per tutto il settore: a partire da Generali (96,6% contro il 98,8 di un anno fa); ma anche Unipol si attesta ormai a quota 98,1%, cinque punti percentuali in meno rispetto al 2010 e in attivo dunque anche nella gestione tecnica della società. Dal punto di vista industriale, insomma, le assicurazioni italiane hanno ritrovato la barra della redditività, e già questo non è un elemento né banale né scontato, se si pensa solo ad un paio di anni fa. A questo punto, l’unica sorvegliata speciale nel panorama italiano resta Fonsai, che nonostante l’aumento di capitale di fine estate ha una capitalizzazione di 518 milioni su una richiesta di mezzi freschi di 450. Fonsai, tra l’altro, ha già utilizzato 17 punti di solvency margin di “grazia” rispetto alle perdite teoriche sui titoli governativi e il massimo concesso dall’Isvap è di 30 punti. Anche sotto questo punto di vista, la compagnia che fa capo alla famiglia Ligresti è sempre più in affanno.