La speranza di vita in Italia ha raggiunto nel 2024 un nuovo massimo storico: 83,4 anni, registrando un incremento di 0,4 anni rispetto al 2023 e l’allungamento della speranza di vita rappresenta una sfida cruciale non solo per la sostenibilità finanziaria dei sistemi previdenziali e sanitari, ma anche per l’equilibrio macroeconomico complessivo, in quanto può incidere sulla struttura del mercato del lavoro, sulle scelte di risparmio e su quelle di consumo.
L’indagine ISCE pubblicata da ANIA permette di studiare le aspettative pensionistiche dei consumatori italiani e il loro grado di preparazione economica alla vecchiaia. I risultati evidenziano come, in media, i cittadini italiani occupati (dipendenti e indipendenti) si attendono di andare in pensione a 66,3 anni percependo circa il 61% del loro stipendio come prima pensione.
Analizzando le aspettative di pensionamento in base al reddito, si nota che l’età pensionabile percepita risulta piuttosto omogenea tra i gruppi, mentre il tasso di sostituzione tende a crescere all’aumentare del reddito. Per quanto riguarda le differenze di genere, donne e uomini indicano età simili di uscita dal lavoro (66,4 anni per le donne e 66,3 per gli uomini), ma anche loro differiscono nelle attese sul tasso di sostituzione, leggermente più elevato per gli uomini (62% rispetto al 59% delle donne).
Il livello di istruzione appare un fattore discriminante: chi ha solo un’istruzione primaria prevede di andare in pensione quasi tre anni prima rispetto ai laureati. Una prospettiva coerente con l’ingresso più tardivo dei laureati nel mercato del lavoro. Quanto alla condizione professionale, gli autonomi si aspettano di ritirarsi in media a 67,2 anni, contro i 66,2 dei dipendenti. I lavoratori dipendenti prevedono un tasso di sostituzione più elevato (62% del salario contro il 56% degli autonomi), coerentemente con un’aliquota contributiva più elevata. Sul piano geografico, i residenti nel Sud e nelle Isole si attendono di andare in pensione circa un anno più tardi rispetto a quelli del Nord-Ovest, mentre le differenze nelle aspettative sulla quota di pensione risultano trascurabili tra le varie aree del Paese.
L’indagine consente inoltre di analizzare le aspettative degli individui sul sostegno in vecchiaia, considerando diverse fonti potenziali quali figli, parenti o amici, Stato e la possibilità di provvedere autonomamente a sé stessi. I dati mostrano che la pianificazione per la sicurezza nella vecchiaia è percepita prevalentemente come una responsabilità individuale. Quasi il 60% degli intervistati si aspetta di provvedere al proprio sostegno con mezzi propri, mentre solo il 26% conta sui figli, il 19% sullo Stato e il 7% su parenti o amici. Questo indica una diffusa cultura dell’autosufficienza e una bassa fiducia nel supporto familiare e istituzionale.
La quota di intervistati che si aspetta di dover provvedere a sé stessi autonomamente in età avanzata cresce al crescere dell’età. Tra i più giovani (18–25 anni) il 40% dichiara di prevedere un sostegno prevalentemente individuale, mentre tra gli over 65 la percentuale raggiunge il 65%. Le aspettative di ricevere supporto dai figli mostrano un lieve incremento nelle fasce di età più elevate, mentre la previsione di poter contare su parenti e amici tende a ridursi con l’invecchiamento. Se fra i più giovani il 20% degli intervistati ritiene di poter fare affidamento sulla propria rete sociale, tale quota scende al 4% tra gli over 65.
Riguardo al ruolo e alla diffusione della previdenza complementare il 24% degli intervistati dichiara di essere in possesso di un piano di previdenza integrativa (i dati sono inferiori rispetto a quelli rilasciati dal COVIP1 – 38,3% – che si riferiscono ad un sottocampione differente di popolazione, considerando unicamente la forza lavoro e ad una fascia di età più ampia). In base ai dati raccolti dall’indagine ISCE, la diffusione della previdenza integrativa varia in base alle caratteristiche socioeconomiche. Fra questi il genere: il 31% degli uomini dichiara di aver sottoscritto un piano pensionistico complementare, contro il 18% delle donne.
Il possesso di un’abitazione sembra essere associato a una maggiore propensione all’accumulo e alla preparazione finanziaria in vista della vecchiaia: il 26% dei proprietari di casa ha un piano pensionistico complementare, rispetto al 17% tra chi non possiede immobili. Notiamo inoltre come la partecipazione alla previdenza integrativa tende a cresce insieme il numero di componenti lavoratori in famiglia: nelle famiglie con un solo lavoratore il 23% possiede una pensione complementare, mentre nelle famiglie con sei lavoratori la quota sale al 34%.
Si osservano infine rilevanti differenze territoriali nella diffusione dei piani di previdenza integrativa. Nelle regioni del Centro-Nord la penetrazione di tali strumenti risulta sensibilmente più elevata: in Veneto e Trentino-Alto Adige quasi un individuo su due dichiara di esserne titolare. Al contrario, nel Mezzogiorno e nelle Isole i tassi di adesione risultano significativamente inferiori. In particolare, Sardegna e Sicilia si collocano agli ultimi posti della graduatoria regionale, con una quota di aderenti pari al 14% della popolazione. Queste disparità possono essere ricondotte a differenze nelle condizioni del mercato del lavoro e nella struttura settoriale. Nelle regioni meridionali, una maggiore diffusione di occupazioni precarie e discontinuità lavorative limita l’accesso e la convenienza ad aderire a strumenti di previdenza complementare. Al contrario, nelle regioni settentrionali, la presenza di comparti produttivi nei quali la previdenza integrativa è sostenuta e promossa dalla contrattazione collettiva – come l’industria metalmeccanica o il settore finanziario – favorisce livelli più elevati di adesione.