GLI ERMELLINI SULL’ATTRIBUZIONE DELLA QUALIFICA: NON OCCORRE L’ESERCIZIO DI TUTTI I POTERI TIPICI
di Stefano Loconte e; Giulia Maria Mentasti
Amministratore di fatto a rischio: per rispondere dell’illecito penale non occorre l’esercizio di “tutti” i poteri tipici dell’organo di gestione, ma è sufficiente una significativa e continuativa attività gestoria, svolta cioè in modo non episodico o occasionale. È quanto emerge dalla sentenza n. 34381 del 16 settembre scorso, con cui la Cassazione, con specifico riferimento alla categoria dei reati tributari, nella quale rientravano quattro dei cinque reati contestati all’imputato, ha dato una definizione della qualifica di amministratore “di fatto”.

Il caso. Era stata disposta la misura cautelare degli arresti in ordine ai reati di cui intestazione fraudolenta di valori di cui all’art- 512-bis c.p. ed emissione di fatture per operazioni inesistenti di cui all’art. 8 dlgs n. 74 del 2000, nei confronti di quello che era stato ritenuto l’amministratore di fatto della società emittente, in quanto “consapevole organizzatore di peculiari modalità operative della società in termini illeciti”. Il ricorso lamentava proprio il vizio di motivazione con riferimento alla qualifica di amministratore di fatto.

L’art. 2639 e l’applicazione giurisprudenziale. La vicenda in esame ha rappresentato un’utile occasione per la Cassazione per fare il punto sulla normativa e sugli orientamenti giurisprudenziali consolidatisi in materia. In particolare, si è ricordato come l’art. 2639 c.c. stabilisce che, per i reati societari previsti dal codice civile, “al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è equiparato sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione”. In applicazione del suddetto dettato normativo, secondo la giurisprudenza, la nozione di amministratore di fatto postula l’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione; nondimeno, significatività e continuità non comportano necessariamente l’esercizio di tutti i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiedono l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico o occasionale. Ne consegue che la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell’accertamento di elementi sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive, in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare, il quale costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione (Cass. pen. n. 35346/2013 e n. 43388/2005).

Amministratore di fatto e reati fallimentari. Anche con riguardo ai reati fallimentari, la giurisprudenza di legittimità, richiamata nella pronuncia in commento, è tradizionalmente orientata nel senso di ritenere che la posizione dell’amministratore di fatto, destinatario delle norme incriminatrici previste dalla legge fallimentare, va determinata con riferimento alle disposizioni civilistiche che, regolando l’attribuzione della qualifica di imprenditore e di amministratore di diritto, costituiscono la parte precettiva di norme che sono sanzionate dalla legge penale. Ciò comporta l’accertamento di elementi sintomatici di gestione o cogestione della società, risultanti dall’organico inserimento del soggetto, quale “intraneus” che svolge funzioni gerarchiche e direttive, in qualsiasi momento dell’iter di organizzazione, produzione e commercializzazione dei beni e servizi rapporti di lavoro con i dipendenti, rapporti materiali e negoziali con i finanziatori, fornitori e clienti, e in qualsiasi branca aziendale, produttiva, amministrativa, contrattuale, disciplinare, con apprezzamento di fatto che è insindacabile in sede di legittimità, se sostenuto da motivazione congrua e logica (Cass. pen. n. 45134/2019 e n. 18464/2006).

Le concrete funzioni esercitate. I destinatari delle norme di cui agli artt. 216 e 223 L. fall. vanno, quindi, individuati sulla base delle concrete funzioni esercitate dal soggetto, non già rapportandosi alle mere qualifiche formali, bensì sulla base di indici sintomatici quali il conferimento di deleghe in suo favore in fondamentali settori dell’attività di impresa; la diretta partecipazione alla gestione della vita societaria; la costante assenza dell’amministratore di diritto; la mancata conoscenza di quest’ultimo da parte dei dipendenti (Cass. pen. n. 41793/2016). L’orientamento è stato recentemente ribadito, più o meno negli stessi termini, da Cass. pen. n. 7437/2020, per la quale del reato di bancarotta fraudolenta rispondono i direttori generali di fatto di una società, individuati sulla base delle effettive funzioni esercitate in relazione alla gestione dell’attività imprenditoriale e all’assetto organizzativo dell’azienda, e non già della mera qualifica formale, per nomina dell’assemblea o disposizione statutaria, ovvero della rilevanza degli atti posti in essere in adempimento della qualifica ricoperta; la citata sentenza ha precisato inoltre che, trattandosi pur sempre di funzioni apicali, le attività gestorie proprie del direttore generale di fatto devono essere svolte con continuità e significatività, in via autonoma o in un rapporto di diretta collaborazione con chi si trovi in posizione, formale o di fatto, sovraordinata.

L’attribuzione della qualifica nei reati tributari. Con specifico riferimento alla categoria dei reati tributari, nella quale rientrano quattro dei cinque reati contestati all’imputato nel caso in esame, la giurisprudenza ha, infine, ritenuto che, ai fini dell’attribuzione a un soggetto della qualifica di amministratore “di fatto”, non occorre l’esercizio di “tutti” i poteri tipici dell’organo di gestione, ma è necessaria una significativa e continuativa attività gestoria, svolta cioè in modo non episodico o occasionale (Cass. pen., n. 22108/2014).

La decisione della Suprema corte. La Cassazione ha esplicitato di condividere i predetti orientamenti, evidenziando che, come emergente sia dalla disciplina legislativa riguardante specificamente i reati societari, sia dall’interpretazione giurisprudenziale in tema di reati fallimentari e tributari, ai fini dell’attribuzione a un soggetto della qualifica di amministratore di fatto occorre il ricorrere dei medesimi requisiti, ovvero essenzialmente l’esercizio, in modo continuativo e significativo, e non meramente episodico o occasionale, di tutti i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione, o anche soltanto di alcuni di essi; in tale ultimo caso, peraltro, spetterà ai giudici del merito valutare la pregnanza, ai fini dell’attribuzione della qualifica o della funzione, dei singoli poteri in concreto esercitati.

Un’ulteriore precisazione della Cassazione. Pur ritenuto che le conclusioni a cui era addivenuto il Tribunale, riconoscendo all’indagato la qualifica di amministratore di fatto della società, fossero in sintonia con i predetti principi di diritto, la Corte ha aderito anche all’ulteriore argomentazione dei giudici di merito, secondo i quali, anche a voler dubitarsi della attribuzione al suddetto della predetta qualifica, sarebbero stati ravvisabili in ogni caso a suo carico gravi indizi di colpevolezza, quale concorrente pienamente consapevole che aveva fornito il proprio contributo causale per la realizzazione dei reati commessi dagli amministratori di diritto.

Dispone infatti l’art. 110 c.p. quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita. Da qui il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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