Vent’anni sono tanti, soprattutto nel mutevole mondo della finanza. Per farsene un’idea è sufficiente vedere come sono cambiati in un simile lasso di tempo gli assetti proprietari delle maggiori banche italiane: nel 2002 le fondazioni detenevano circa il 40% di Unicredit con Crt (14,5%) e Cariverona (13,3%) capofila, mentre in Intesa Cariplo e Cariparma controllavano il 15% e nel San Paolo Imi la Compagnia, Carisbo e Cariparo blindavano il 33%. Per non parlare di Mps, di cui Fondazione Montepaschi aveva in pugno quasi il 70%. Un peso specifico che faceva la differenza in molte partite. Lo si vide con chiarezza nel 2003, quando tutte le grandi fondazioni affiancarono l’Unicredit di Alessandro Profumo nella scalata alle Generali. Dopo fulminei e vorticosi acquisti il fronte si portò molto vicino alla quota detenuta da Mediobanca, il cui ceo Vincenzo Maranghi era l’obiettivo degli scalatori. La ragione? Al delfino di Enrico Cuccia si rimproveravano un’autoreferenzialità ormai indifendibile e soprattutto relazioni troppo strette con l’establishment finanziario francese. Relazioni che prima o poi sarebbero potute sfociare in un raid sulle Generali. Da Cariverona a Cariplo, dalla Compagnia alla Crt (quest’ultima però più defilata delle altre), le fondazioni scesero in campo alla parola d’ordine di «italianità», contribuendo a imprimere una svolta agli assetti di potere nel sistema bancario.

Fatti lontani che presentano tuttavia più di un’analogia con le cronache di questi mesi. Non solo perché, oggi come allora, nella finanza italiana sono in atto profondi cambiamenti, ma anche per il ruolo di primo che le fondazioni sono tornate a giocare sullo scacchiere. Sia chiaro: il quadro regolamentare è cambiato profondamente. Il protocollo sottoscritto da Acri e Tesoro nel 2015 ha posto una serie di paletti alle attività delle fondazioni, a partire dall’entità delle partecipazioni nelle banche conferitarie. Scelte prudenziali dettate dal bisogno di evitare nuovi dissesti dopo quelli che tra il 2010 e il 2015 hanno travolto numerose realtà.

Anche gli azionariati dei grandi intermediari sono cambiati: banche e assicurazioni somigliano sempre di più a public company con una massiccia presenza di investitori istituzionali. Eppure le fondazioni non sono uscite di scena. Al contrario, hanno rialzato la testa e vogliono tornare a contare.

Il caso più significativo è Unicredit. L’aumento di capitale da 13 miliardi lanciato dal ceo Jean Pierre Mustier nel 2017 ha diluito drasticamente le fondazioni azioniste e i rapporti tra i soci e il vertice della banca sono stati difficili. L’arrivo di Andrea Orcel ha però aperto una nuova fase: gli enti sono tornati al centro della governance dell’istituto e potrebbero presto darsi anche una cornice istituzionale. L’idea, rilanciata nello scorso fine settimana dal Corriere di Torino, è promuovere un accordo di consultazione che consenta ai soci di confrontarsi in trasparenza sulle strategie e sugli orientamenti da assumere in assemblea. L’ipotesi piace alla Crt (1,6% di Unicredit), mentre non trova perfettamente allineati gli altri soci storici. Cariverona (1,8%) per esempio ha liquidato come «infondato» il progetto, lasciando intendere di preferire un basso profilo nella corporate governance di Unicredit. Vero è però che l’idea di creare un nocciolo tutto italiano nella più internazionale delle banche tricolori dovrebbe trovare molti sostenitori. Tra questi, si mormora nella city milanese, potrebbe esserci Leonardo Del Vecchio, che oggi ha in mano il 2% di piazza Gae Aulenti e mantiene stretti rapporti con il ceo Orcel.

Un altro fronte aperto sono le Generali. Anche qui a muoversi per prima è stata Crt (azionista del Leone all’1,26%), che nelle scorse settimane ha apportato le proprie azioni al patto di consultazione promosso da Francesco Gaetano Caltagirone e Del Vecchio. L’ente torinese è entrato quasi in punta in piedi nella disfida tra gli imprenditori e Mediobanca e le dichiarazioni rilasciate dal presidente Giovanni Quaglia hanno avuto sinora un tono accomodante.

Per Crt la partita potrebbe avere effetti rilevanti, proiettandola al centro della governance della principale assicurazione italiana. Torino però potrebbe avere presto compagnia. Tra gli esiti possibili dell’opa su Cattolica ci potrebbe infatti essere un ingresso di Cariverona (da sempre in cordiali rapporti con Del Vecchio) nelle Generali. La quota sarebbe residuale in termini percentuali ma avrebbe un peso specifico rilevante e potrebbe giocare un ruolo negli assetti di governance futuri.

Che i patti di sindacato siano tornati a godere di buona salute nella finanza italiana a tutto vantaggio delle fondazioni lo dimostra anche la partita Banco Bpm. Qui a inizio 2021 Crt ha promosso la nascita di un accordo di consultazione che raccoglie il 6,2% del capitale e coinvolge enti come Manodori e CariCarpi oltre a Enpam e Inarcassa.

Come in passato, un patto di consultazione potrebbe a breve vedere la luce anche tra le fondazioni azioniste di Ca’ de Sass che dovranno attivarsi in vista del rinnovo dei vertici della banca. Un primo incontro tra i presidenti di Cariplo, Compagnia di San Paolo, Cariparo, Carisbo e CariFirenze per impostare il lavoro e vagliare le prime candidature è previsto per la seconda metà di ottobre, anche se il mercato non si attende grandi discontinuità: alla luce dei soddisfacenti risultati raggiunti le probabilità che il ceo Carlo Messina ottenga il quarto mandato e il presidente Gian Maria Gros-Pietro il terzo sono alte.

Anche in Cassa Depositi e Prestiti (partecipata al 16% sempre dalle fondazioni) non si attendono sorprese dopo il delicato rinnovo che prima dell’estate ha portato al vertice operativo Dario Scannapieco. A vegliare per conto degli enti sull’istituzione di via Goito c’è del resto il fidato Giovanni Gorno Tempini, confermato nella poltrona di presidente con ampio consenso nel sistema. (riproduzione riservata)
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