Nella liquidazione del danno patrimoniale da lucro cessante (derivante dalla perdita della capacità lavorativa) vanno sottratti gli indennizzi erogati al danneggiato dall’ente previdenziale?

Si tratta di una questione giuridica oggettivamente dibattuta, tradizionalmente indicata come compensatio lucri cum damno, in ordine alla quale anche la Corte di cassazione è approdata a soluzioni contrastanti.

Controversi, in particolare, sono la portata e l’ambito di operatività della figura soprattutto là dove il vantaggio acquisito al patrimonio del danneggiato in connessione con il fatto illecito derivi da un titolo diverso e vi siano due soggetti obbligati in base a fonti differenti.

È la situazione che si verifica quando, accanto al rapporto tra il danneggiato e chi è chiamato a rispondere civilmente dell’evento dannoso, si profila un rapporto tra lo stesso danneggiato e un soggetto diverso, a sua volta obbligato, per legge o per contratto, ad erogare al primo un beneficio collaterale (ad es., l’assicurazione privata contro i danni, le prestazioni di assistenza sociale a tutela contro gli infortuni e le malattie professionali, gli indennizzi o speciali elargizioni che lo Stato corrisponde, per ragioni di solidarietà, a coloro che subiscono un danno in occasione di disastri o tragedie e alle vittime del terrorismo o della criminalità organizzata).

Il contrasto è stato finalmente risolto con la sentenza delle Sezioni Unite n. 12564 del 22 maggio 2018.

In particolare, è stato affermato che non corrisponderebbe al principio di razionalità-equità, e non sarebbe coerente con la poliedricità delle funzioni della responsabilità civile, ritenere che la sottrazione del vantaggio sia consentita in tutte quelle vicende in cui l’elisione del danno con il beneficio pubblico o privato corrisposto al danneggiato a seguito del fatto illecito finisca per avvantaggiare esclusivamente il danneggiante, apparendo preferibile in tali evenienze favorire chi senza colpa ha subito l’illecito rispetto a chi colpevolmente lo ha causato.

Pertanto, secondo le Sezioni Unite è dirimente la circostanza che l’ordinamento preveda un meccanismo di surroga o di rivalsa a favore del terzo, nei confronti del danneggiante.

Solo a queste condizioni, infatti, si evita che quanto erogato dal terzo al danneggiato si traduca in un vantaggio inaspettato per l’autore dell’illecito: la facoltà di surroga o di rivalsa assicura che il danneggiante, esposto all’azione di recupero da parte del terzo da cui il danneggiato ha ricevuto il beneficio collaterale, non potrà avvantaggiarsi della detrazione della posta positiva dal risarcimento.

In sostanza, l’elemento decisivo è costituito dalla indifferenza del risarcimento, ossia dalla circostanza che, quale che sia il soggetto che corrisponderà il risarcimento al danneggiato, a sopportarne il costo finale sia comunque l’autore dell’illecito.

Se così non fosse, se cioè il responsabile dell’illecito, attraverso il non-cumulo, potesse vedere alleggerita la propria posizione debitoria per il solo fatto che il danneggiato ha ricevuto, in connessione con l’evento dannoso, una provvidenza indennitaria grazie all’intervento del terzo, si finirebbe con l’avvantaggiare, senza merito specifico, chi si è comportato in modo negligente.

Sulla base di tali premesse, poiché il caso sottoposto dall’ordinanza remittente alle Sezioni Unite riguardava la possibilità di applicare la compensatio lucri cum damno fra il risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui e la pensione di reversibilità accordata dall’I.N.P.S. al familiare superstite in conseguenza della morte del congiunto, le Sezioni Unite hanno concluso che, trattandosi di una forma di tutela previdenziale connessa ad un peculiare fondamento solidaristico e non geneticamente connotata dalla finalità di rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell’illecito del terzo, la predetta compensazione non può aver luogo (Sez. U, Sentenza n. 12564 del 22/05/2018).

Nell’ambito del medesimo percorso argomentativo, le Sezioni Unite hanno altresì chiarito che, nel caso di assicurazione sulla vita, l’indennità si cumula con il risarcimento, perché si è di fronte a una forma di risparmio posta in essere dall’assicurato sopportando l’onere dei premi, e l’indennità, vera e propria contropartita di quei premi, svolge una funzione diversa da quella risarcitoria ed è corrisposta per un interesse che non è quello di beneficiare il danneggiante.

Diversamente, continuano le Sezioni Unite, nel caso in cui un impiegato resti assente dal lavoro a causa di un infortunio, continuando a percepire la retribuzione, egli non ha diritto di chiedere al danneggiante anche il danno da incapacità temporanea, poiché in tale evenienza non si è prodotto un effettivo danno patrimoniale e pertanto non gli compete alcun risarcimento a questo titolo, a meno che il danneggiato non deduca di aver dovuto rinunciare a straordinari o trasferte o di avere subito pregiudizi nella carriera per la forzata assenza dal lavoro.

Dunque, le Sezioni Unite – in fin dei conti – per delimitare l’ambito di applicazione della compensatio lucri cum damno non fanno riferimento solamente al criterio dell’esistenza di un regime legale di surroga o rivalsa, che impedisca al danneggiante di avvantaggiarsi dell’indennizzo che il terzo ha corrisposto al danneggiato, ma anche quello della non omogeneità delle funzioni delle poste attive riscosse dal danneggiante.

Il caso che viene in evidenza nel ricorso in esame pone a confronto il danno patrimoniale da lucro cessante conseguente alla perdita della capacità lavorativa, da un lato, e l’indennità di malattia e la pensione di invalidità, dall’altro.

L’ipotesi è diversa da quella della pensione di reversibilità, che ha costituito l’oggetto specifico della decisione delle Sezioni Unite.

La pensione di reversibilità – come s’è detto – costituisce una forma di tutela previdenziale volta a garantire la continuità del sostentamento ai superstiti (Corte Cost., sentenza n. 286 del 1987) e quindi non ha natura propriamente risarcitoria.

La cumulabilità con il risarcimento del danno patrimoniale da perdita di congiunto dipende dalla eterogeneità delle finalità delle due voci (risarcimento del danno patrimoniale e pensione di reversibilità) e dall’inesistenza di sistemi di recupero, da parte dell’ente previdenziale, nei confronti del danneggiante di quanto verrà corrisposto al superstite.

L’indennità di malattia e la pensione di invalidità corrisposte al lavoratore che, per effetto dell’infortunio cagionatogli da un terzo, abbia ridotto o perso la propria capacità lavorativa in modo temporaneo o permanente sono, invece, direttamente compensative del danno patrimoniale per lucro cessante (perdita del reddito).

Le due diverse prestazioni (il risarcimento del danno e le indennità previdenziali) assolvono, questa volta, ad una funzione omogenea, essendo entrambe dirette a compensare il danneggiato per la perdita del medesimo bene della vita (la capacità di produrre reddito).

Inoltre, l’ordinamento prevede la possibilità per l’ente previdenziale di recuperare presso il danneggiante quanto corrisposto al danneggiato, ai sensi del D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 148 (Codice delle assicurazioni) e, in precedenza, della L. 24 dicembre 1969 n. 990 art. 28, nonché della L. 12 giugno 1984 n. 222 art. 14.

Si tratta di ipotesi specifiche di surroga previste dalla legge in favore dell’istituto di previdenza, riconducibili allo schema generale di cui agli artt. 1203 e 1916 c.c.

Sussiste, quindi, quella particolare condizione di indifferenza del risarcimento, in ragione della quale, se, da un lato, il danneggiato non può duplicare il risarcimento del danno del medesimo bene della vita, dall’altro il danneggiante non si avvantaggia dell’intervento dell’ente previdenziale, restando esposto alle azioni di recupero che potranno essere intentate da questo nei suoi confronti.

In caso di sinistro che comporti la perdita totale o parziale, temporanea o definitiva, della capacità lavorativa, il danneggiato non può cumulare la prestazione previdenziale che abbia eventualmente percepito con l’integrale risarcimento del danno patrimoniale, essendo entrambe le poste finalizzate al ristoro della lesione del medesimo bene della vita (la capacità di produrre reddito). Pertanto, nel caso in cui l’ente previdenziale abbia corrisposto a tale titolo una indennità al danneggiato, di quest’importo si dovrà tenere conto nella liquidazione del danno il cui risarcimento è posto a carico del danneggiante, fermo restando che quest’ultimo resta esposto alle azioni di recupero che potranno essere intentate contro di lui dall’ente previdenziale ai sensi ai sensi del D.Lgs. 7 settembre 2005 n. 209 art. 148 (Codice delle assicurazioni) e della L. 12 giugno 1984 n. 222 art. 14.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza del 5 luglio 2019 n. 18050

danno patrimoniale da lucro cessante