L’una e l’altra costituiscono infatti, dal punto di vista giuridico, un danno biologico. Il c.d. danno psichico non è un pregiudizio diverso dal danno biologico: è, più semplicemente, un danno biologico consistente nella alterazione o soppressione delle facoltà mentali.

Si tratta dunque di una categoria descrittiva e non giuridica, così come – ad esempio -, se si parlasse di danno neurologico o di danno cardiovascolare.

Anche il danno psichico, pertanto, come qualsiasi altra lesione della salute, va accertato in corpore con criteri medico-legali, e va valutato in punti percentuali in base ad un accreditato bareme medico-legale.

Ove, poi, una lesione della salute psichica venga a cumularsi con un evento stressogeno quale il lutto, spetterà al giudice di merito stabilire in concreto se il dolore causato dalla perdita di un familiare sia o non sia degenerato in una sindrome di rilievo neurologico: accertamento, quest’ultimo, da compiere con metodo accurato e scientificamente valido, consistente nel far somministrare al danneggiato adeguati test psicologici; nel farlo sottoporlo a reiterati colloqui con uno specialista psichiatra; e finalmente nel comparare la sintomatologia presentata dalla vittima con le descrizioni nosografiche delle malattie psichiche contenute nei testi scientifici, e principalmente nell’universalmente utilizzato Diagnostic and Statiscal Manual of Mental Disorders, o DSM-5.

Nel compiere tali operazioni, il giudice di merito ovviamente dovrà astenersi sia dal ritenere che la stima del danno morale causato dalla morte d’un congiunto possa ristorare di per sé anche l’eventuale malattia psichica patita dal superstite; sia – all’opposto dall’indulgere a frettolose panpsichiatrizzazioni d’ogni moto dell’animo, pervenendo a concludere che qualsiasi turbamento costituisca per ciò solo un danno alla salute.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza del 5 luglio 2019 n. 18056

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