L’esperimento per avere la liquidazione in busta paga si è chiuso (senza successo) ed è tornato il regime ordinario che offre un tris di possibilità
di Carlo Giuro

Con la fine dello scorso mese di giugno si è conclusa la sperimentazione, avviata nel marzo 2015, della possibilità di fare confluire il tfr in busta paga (Quota integrativa del reddito). La misura, introdotta dal governo Renzi, si proponeva di irrobustire la capacità d’acquisto delle famiglie per riavviare il circuito dei consumi. I risultati raggiunti sembrano essere stati tuttavia abbastanza irrilevanti soprattutto per lo scarso appeal fiscale. L’eventuale tfr maturando in busta paga sarebbe stato oggetto infatti di tassazione con aliquota Irpef rispetto alla tassazione separata del tfr e all’imposta sostitutiva del 15% applicata invece al tfr confluito nei fondi pensione o nei pip.

La platea era rappresentata dai dipendenti del settore privato, a eccezione dei lavoratori domestici e di quelli del settore agricolo, con un rapporto di lavoro da almeno sei mesi. L’opportunità poteva essere colta anche in caso di conferimento del tfr maturando alle forme pensionistiche complementari. L’eventuale utilizzo della possibilità di confluenza del tfr in busta paga non avrebbe precluso la possibilità di aderire a previdenza complementare né su base individuale, ma neanche su base collettiva. In questo caso l’adesione sarebbe avvenuta con il versamento del proprio contributo e di quello del datore di lavoro mentre il versamento del tfr era sospeso.

Con la conclusione della sperimentazione si torna allora al regime ordinario. Prendendo spunto dalla Relazione annuale della Covip le possibili scelte per un dipendente per quel che riguarda la destinazione dl tfr sono tre. Può far confluire la liquidazione a una forma di previdenza complementare con modalità tacita: se entro sei mesi dalla prima assunzione il lavoratore non ha effettuato alcuna scelta, il datore di lavoro fa confluire il tfr maturando alla forma previdenziale collettiva di riferimento per il lavoratore o, in mancanza di questa, a Fondinps. Oppure può dirottarlo a una forma di previdenza complementare con modalità esplicita: il lavoratore può decidere di versare il proprio tfr al fondo o pip da lui stesso designato investendo, oltre al tfr maturando, una contribuzione aggiuntiva (propria ed eventualmente del datore di lavoro) che sarà interamente deducibile dal reddito complessivo entro la soglia annua di 5.164,57 euro. Investire il tfr ai fondi pensione ha l’obiettivo di rimpolpare la pensione pubblica che nel sistema contributivo rischia di non essere adgeuata. Come terza ipotesi è possibile mantenere il regime del tfr con modalità esplicita: accantonandolo presso l’azienda nel caso quest’ultima abbia meno di 50 dipendenti o, nell’ipotesi di un numero di dipendenti pari o superiore a 50, destinandolo al Fondo di tesoreria presso l’Inps. (riproduzione riservata)

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