di Guido Salerno Aletta

Più che al paradosso, ormai siamo arrivati alla paranoia. I dati diffusi ieri dall’Istat sul reddito delle famiglie e sul deficit della PA nel secondo trimestre dell’anno dimostrano che se l’Italia arranca è soprattutto per paura del futuro. A forza di dire che bisogna stare attenti perché una crisi è sempre lì pronta dietro l’angolo, siamo arrivati a conseguenze inimmaginabili: il reddito lordo disponibile delle famiglie consumatrici è cresciuto rispetto al secondo trimestre del 2017 del 2,9%, ma la spesa per consumi finali è aumentata solo dell’1,7%. Il tasso di investimento è rimasto inchiodato al 6% rispetto al precedente 5,9%. La propensione tendenziale al risparmio è stata del 10,4% rispetto al precedente 9%. Più formiche di così, si muore.
Anche nel confronto congiunturale con il primo trimestre di quest’anno, il miglioramento c’è stato. Il reddito disponibile delle famiglie consumatrici è aumentato dell’1,3%, soprattutto per il concentrarsi degli incrementi retributivi del pubblico impiego, ma i consumi sono cresciuti di una inezia, appena dello 0,1%. La propensione al risparmio è invece aumentata di 1,1 punti percentuali rispetto al trimestre precedente, salendo all’8,6%. Non c’è dubbio che in molti casi le famiglie stiano facendo fronte agli impegni derivanti da prestiti contratti in precedenza e a scadenze rimaste in sospeso, come rate di affitto o bollette rimaste impagate.

In ogni caso, nonostante la stagnazione dei prezzi, visto che il deflatore implicito dei prezzi è cresciuto solo dello 0,1% rispetto al primo trimestre dell’anno, e che pertanto il potere d’acquisto è salito dell’1,2% tra un trimestre e l’altro (reddito disponibile lordo meno variazione dei prezzi al consumo), c’è da sottolineare come non ci sia solo il pessimismo e talora i debiti ad attanagliare le famiglie italiane: solo in questo secondo trimestre del 2018 il loro potere d’acquisto è tornato ai livelli rilevati alla fine del 2011, quando iniziò la ricaduta economica. Siamo a circa 260 miliardi di euro su base annua, ancora lontani dai 280 miliardi del 2007.

Fanno impressione anche i conti delle Pubbliche amministrazioni, che in questo caso sono stati presentati dall’Istat in forma non destagionalizzata. Nel secondo trimestre di quest’anno, l’indebitamento netto in rapporto al pil, quello di cui si sta discutendo animatamente per il triennio 2019-2021, è stato pari allo 0,5%, a fronte del 2,1% dello stesso trimestre del 2017, che aveva però risentito (per 1,1 punti percentuali) dell’effetto del trasferimento in conto capitale operato per l’intervento sulla crisi delle Banche Venete. Al netto di questi trasferimenti eccezionali, il rapporto deficit/pil si è dimezzato, passando dall’1 allo 0,5%. Anche se un basso profilo congiunturale nel rapporto deficit/pil riferito al secondo trimestre dell’anno è fisiologico, visto che a fine giugno si concentrano i pagamenti di numerose imposte, il dato rimane assai significativo.

Infine, il saldo primario delle PA (indebitamento al netto degli interessi passivi) è risultato positivo, con un’incidenza sul pil del 3,5%, mentre era stato del 2,3% nel secondo trimestre del 2017. C’è da segnalare il dato relativo agli investimenti. Mentre quelli delle imprese private hanno segnato un andamento positivo con il 21,9% (+0,5% rispetto al trimestre precedente e +0,9% rispetto al secondo trimestre 2017), quelli pubblici sono praticamente crollati: -30% rispetto al 2017 e -22,8% rispetto al primo trimestre dell’anno. In questo caso, c’è davvero proprio tanto da recuperare. (riproduzione riservata)

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