Risparmio a raggi X/ È quanto è costato agli italiani il caro-spread dalle elezioni ad oggi. La propensione ad accumulare resta alta, ma il Paese non può permettersi di disperdere la ricchezza di famiglie e imprese. Che vale 10 mila miliardi di euro
di Roberta Castellarin e Paola Valentini

Una cifra monstre, superiore al 10% del pil nazionale; 198 miliardi di ricchezza degli italiani immolata sull’altare dello spread dal giorno successivo alle elezioni politiche del 4 marzo. Un bilancio purtroppo solo provvisorio. I sette mesi che separano il Paese dalla nuova tornata elettorale, quella delle elezioni europee, rischiano di essere ancora più complicati per il governo giallo-verde e soprattutto più onerosi per il risparmio nazionale. Il braccio di ferro con l’Unione europeea prosegue e porterà alla sicura bocciatura della proposta di legge di Bilancio e all’avvio della procedura d’infrazione contro l’Italia. L’appello al buon senso lanciato dal presidente della Bce, Mario Draghi, perché l’Italia cambi la manovra rientrando nella cornice di regole europee, è caduto nel vuoto. O meglio è servito solo a mettere più in evidenza il nome di Draghi nel lungo elenco di nemici del popolo redatto dal governo del cambiamento.
Molti nemici, molto onore.

Del resto con l’ex governatore della Banca d’Italia non è che i rapporti fossero buoni anche prima. Quando lo scorso settembre Draghi osservò che le parole sull’Europa di Matteo Salvini e Luigi Di Maio avevano già creato danni sui mercati, il leader leghista replicò piccato: «Conto che gli italiani in Europa facciano gli interessi dell’Italia come fanno tutti gli altri Paesi, aiutino e consiglino e non critichino e basta». E allora lo spread era a 236 punti. Oggi che veleggia stabilmente sopra quota 300, alle parole di Draghi risponde duro Di Maio: «Mi meraviglio che un italiano si metta in questo modo ad avvelenare il clima ulteriormente». Il problema, però, è che, proprio perché italiano, Draghi è l’unico esponente di un’istituzione europea, se non amico, almeno non ostile su cui il governo possa contare tra Bruxelles e Francoforte. Certo non si sono dimostrati molto amichevoli gli alleati sovranisti di Salvini, a cominciare dalla destra austriaca e tedesca, in prima fila a invocare una linea dura contro i conti italiani. E anche le agenzie di rating non hanno mancato di aggiungere i loro schiaffi a quelli di Commissione e Fondo Monetario e Ocse, un fronte compatto che ha bocciato la manovra del governo, dalle previsioni economiche ai saldi di bilancio. Una raffica di no, che non ha modificato di una virgola la posizione di grillini e leghisti, convinti di poter tenere botta fino alle elezioni europee, sicuri di poter essere determinanti nei nuovi equilibri a Strasburgo così da poter ridiscutere anche il no attuale. Anche quota 300 di spread è considerata un male accettabile. Il mercato, dicono, ha già scontato tutte le reazioni negative, quindi, si può andare avanti e attendere gli effetti benefici di una manovra che spingerà consumi e investimenti. Peccato che quota 300 sia già un disastro per l’economia italiana e soprattutto per i risparmiatori, famiglie comprese.

Il prezzo dello spread. I conti se li sono fatti Luca Ricolfi, Rossana Cima e Caterina Guidoni, curatori di uno studio pubblicato dalla fondazione Hume, che ha provato a calcolare quanto sia costata l’incertezza politico-finanziaria che si è instaurata in Italia dopo le elezioni del 4 marzo 2018. Hanno usato tutti i dati disponibili, sommando tre addendi fondamentali: la variazione della capitalizzazione del mercato azionario italiano (limitatamente alle società quotate); la variazione del valore dei titoli di Stato detenuti da individui e operatori residenti in Italia, al netto di quelli detenuti dalla Banca d’Italia; il deprezzamento dei titoli di debito del mercato obbligazionario italiano. «A parte sono state calcolate le perdite di valore dei titoli di Stato detenuti dalla Banca d’Italia e dagli investitori esteri. Nel caso delle perdite del solo comparto Italia (senza Banca d’Italia e investitori esteri) abbiamo anche provato ad isolare le perdite sofferte dai settori delle famiglie e delle imprese, questa volta includendo anche le azioni e partecipazioni di società non quotate», spiegano gli esperti, che aggiungono: «Tutte le stime sono prudenziali: è ragionevole pensare che le perdite effettive siano state maggiori di quelle da noi stimate». L’analisi ricorda che le perdite calcolate sono virtuali, e potrebbero essere riassorbite, o tramutarsi in guadagni, ove la situazione economica e le valutazioni dei mercati nei prossimi mesi o anni dovessero evolvere positivamente. E dallo studio emerge che le perdite sui tre mercati esaminati ammontano a 198 miliardi dal momento del voto, di questi sono 107 i miliardi di valore che si sono volatilizzati dall’insediamento del Governo a oggi.

Una botta che colpisce un settore, quello del risparmio, che comunque resta uno dei pochi punti forte del sistema nazionale. Secondo il Rapporto della Consob sulle scelte di investimento per il 2018, la ricchezza netta delle famiglie italiane è rimasta stabile sui livelli del 2012, ai tempi della prima crisi dello spread, attestandosi a fine 2017 a circa 10 mila miliardi di euro, con gli immobili in calo, ma con un ruolo ancora dominante (6,5 mila miliardi a fine 2017 dai 7 mila miliardi del 2012). Al netto dei finanziamenti contratti dalla famiglie (poco meno di 1 miliardo) la quota restante è relativa agli asset finanziari. Questi ultimi, sulla base delle rilevazioni della Banca d’Italia aggiornate a fine giugno 2018 ammontano a 4.287 miliardi, in calo dai 4.370 miliardi da fine 2017, ma pur sempre superiori ai 4 mila miliardi del 2012. A pesare è proprio l’impennata dello spread tra Btp e Bund che ha ridotto il valore di mercato di azioni e titoli di Stato nel portafoglio delle famiglie. Del resto, il risparmio è il vero oro dell’Italia e le famiglie lo hanno difeso in tutti i modi in questi ultimi anni di rallentamento per l’economia del Paese. Come emerge dall’Indagine Acri Ipsos sul risparmio che sarà presentata martedì 30 ottobre il numero di italiani propensi al risparmio resta elevato (era l’86% nel 2017 e l’88% nel 2016). E questo bacino è servito da ammortizzatore per il welfare di fronte a uno Stato sempre più indebitato ed è uno dei punti di forza del Paese citati da Moody’s quando ha tagliato il rating dell’Italia per via del deficit più alto delle attese nella manovra. Secondo Moody’s questo alto livello di ricchezza privata è un cuscinetto rilevante contro gli shock futuri e anche una potenziale fonte di finanziamento per il governo. Non a caso, con la nascita dei Cir (i Conti individuali di risparmio) le risorse delle famiglie sono chiamate anche a svolgere una funzione politica e economica, non soltanto sociale: il governo punta a coinvolgerle nell’investimento in Btp per stabilizzare lo spread e lo strumento Cir permetterebbe anche di raccogliere risorse da destinare al rilancio delle infrastrutture.

Tutto cambia. È definitivamente tramontato il modello del dopo guerra di uno Stato che si occupava del cittadino dalla culla fino alla vecchiaia. Anche perché per finanziare questo welfare lo Stato per anni ha speso più di quanto incassava e ciò ha portato, 60 anni dopo, a un debito pubblico monstre di oltre 2.300 mila miliardi di euro. Così ora i conti pubblici non tornano più. Le famiglie lo hanno imparato a loro spese e così fanno sempre più affidamento sulle proprie risorse che, almeno fino alla recente crisi dello spread, sono riuscite a proteggere.
La crescente importanza del risparmio gestito e la nascita dei Pir (Piani di risparmio) vanno in questa direzione. Assieme a una maggiore percezione della necessità di coniugare interesse individuale e collettivo quando si prendono decisioni di investimento, come nel caso dei Cir . Non a caso l’appuntamento annuale della giornata Mondiale del Risparmio organizzata dall’Acri (l’associazione delle fondazioni ex bancarie), in programma mercoledì 31 ottobre, quest’anno è dedicata al tema «Etica del risparmio e sviluppo». Parleranno sul tema il Ministro dell’Economia Giovanni Tria, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, il presidente dell’Acri Giuseppe Guzzetti e il presidente dell’Abi Antonio Patuelli. Il giorno precedente, l’Acri presenterà l’aggiornamento 2018 della ricerca annuale condotta con Ipsos sul rapporto tra gli italiani e il risparmio. Un rapporto che ha radici lontane.

D’altronde, come fece l’Italia nel primo dopoguerra, quando preferì tenere parte degli aiuti previsti dal piano Marshall per avere una scorta in caso di emergenza, così da sempre le famiglie italiane sono state più formiche che cicale. Dal rapporto Hoffman dell’epoca emerse che, mentre in tutti i Paesi gli aiuti Marshall furono investiti dagli Stati con una politica di spesa e di interventi straordinari che fece da volano alla crescita, secondo le regole della teoria keynesiana, in Italia questo meccanismo fu applicato con maggiore timidezza. Certo ci fu il piano casa di Fanfani, ma il governo usò con grande cautela gli aiuti Marshall tanto da attirarsi le critiche degli stessi esperti statunitensi. Sono molte le ragioni di questa prudenza che porta ad alimentare un tesoretto. Tra queste va sottolineato il pessimismo comprensibile di una generazione che aveva già vissuto sulla sua pelle due guerre mondiali e temeva l’arrivo di una terza. Ora la memoria degli italiani, almeno quelli più giovani, non è segnata da guerre recenti, ma da una crisi finanziaria decennale capace di minare fiducia e potere di spesa e di risparmio. Ma questo, nonostante tutto, tiene. Dai dati Istat del secondo trimestre 2018 emerge che il reddito disponibile delle famiglie consumatrici è aumentato dell’1,3% rispetto al trimestre precedente, mentre i consumi sono cresciuti dello 0,1%. Di conseguenza la propensione al risparmio delle famiglie consumatrici è risultata superiore di 1,1 punti percentuali rispetto al trimestre precedente, salendo all’8,6%. Una conferma arriva anche dall’Indagine sul risparmio e sulle scelte finanziarie degli italiani 2018 del Centro Einaudi e di Intesa Sanpaolo , pubblicata lo scorso luglio, secondo cui la propensione al risparmio (calcolata chiedendo agli intervistati quale percentuale del reddito abbiano risparmiato) è salita al valore più alto dal 2001. L’area del non-risparmio, ossia delle famiglie che non hanno messo da parte alcunché nei 12 mesi precedenti l’indagine, si contrae dal massimo storico del 61,3% nel 2012 al 52,7% nel 2018. In modo speculare, la percentuale di famiglie risparmiatrici si porta oltre il 47%, dal 43,4% del 2017. Un’eredità della ripresa economica del Paese. Nel 2017 l’economia italiana ha concluso il suo quarto anno positivo, benché solo il primo con una crescita del pil superiore all’1% (+1,5%). E anche i mercati finanziari hanno dato soddisfazioni. «La crescita economica globale, che si è consolidata e sincronizzata nel 2017, ha fornito motivo di ottimismo alle aspettative sui profitti delle imprese, che hanno a loro volta spinto le borse.
Le azioni europee si sono apprezzate del 10% e quelle globali del 4% in euro, benché la loro crescita sarebbe stata maggiore in valuta estera, a causa del deprezzamento dell’euro», spiega lo studio di Centro Einaudi e Intesa Sanpaolo . Che fotografa un altro fenomeno importante: oltre un terzo della popolazione detiene una ricchezza finanziaria fino a un anno di reddito (era poco meno di un terzo l’anno scorso) e più di un quinto detiene risparmi accumulati superiori a tre anni di reddito (poco meno di un quinto nel 2017). Il dato migliora per i più anziani, che hanno avuto più tempo per risparmiare e, probabilmente, non hanno reddito, solo il 15,6% non ha risparmi accumulati. I dati sugli stock, in definitiva, confermano il consolidarsi della capacità di risparmio. «In Italia il valore che si riconosce al risparmio è ben radicato e non è stato intaccato dalle turbolenze congiunturali, anche gravi, dell’ultimo decennio, né sembra destinato a incrinarsi sotto il peso delle modificazioni strutturali della società e dell’economia. Non stupisce, quindi, che il ritorno al risparmio sia al tempo stesso un effetto e un segnale della ritrovata dinamica positiva», spiega questa indagine. Ma l’andamento dei primi mesi del 2018, con l’impennata dello spread rischia di rimettere in discussione tutto.
Il rapporto della Consob sulle scelte di investimento delle famiglie italiane, conferma «che c’è ancora molto da fare per rendere risparmiatori e investitori consapevoli degli strumenti a disposizione per il raggiungimento degli obiettivi personali e del sistema di tutele che sostiene sia il fisiologico processo di investimento, sia i rimedi che entrano in gioco quando qualcosa non è andato per il verso giusto», spiega Anna Genovese, presidente vicario della Consob. Il Rapporto conferma quanto è necessario accrescere la cultura finanziaria dei risparmiatori e degli imprenditori. Non a caso proprio ottobre è il primo mese dell’educazione finanziaria, lanciato dal Comitato Nazionale per la programmazione e il coordinamento delle attività di educazione finanziaria diretto da Annamaria Lusardi. Lo studio Consob osserva che, pur con tutte le difficoltà del Paese, la ricchezza netta delle famiglie italiane è rimasta stabile sui livelli del 2012, attestandosi a nove volte il reddito disponibile, mentre il dato medio per i Paesi dell’area euro è otto volte, ma il tasso di risparmio lordo continua ad attestarsi al di sotto della media europea. A fine 2017 risultava pari al 9,7%, a fronte dell’11,8% dell’Eurozona. E il divario fra Italia ed Europa spicca anche sulle scelte di portafoglio, soprattutto per la componente assicurativa e previdenziale, sia sul livello di indebitamento.

Il peso di fondi pensione e polizze nel contesto domestico rimane più contenuto, anche se in crescita. A contare di più nella composizione di portafoglio sono i fondi comuni e i titoli di Stato italiani (dopo i depositi bancari e postali). Per quanto riguarda il livello di indebitamento, le famiglie italiane continuano ad essere più virtuose, registrando a fine 2017 un rapporto debito/pil pari al 40% a fronte di poco meno del 60% per la media dell’area euro. Passando all’inclusione finanziaria, la diffusione di alcuni prodotti e servizi bancari (conto corrente, carta di credito e carta di debito) vede l’Italia in linea con la media dell’area euro, grazie all’incremento registrato nel periodo 2011-2017. In alcuni casi rimane un più accentuato gap di genere, che vede ad esempio carte di credito e di debito meno diffuso tra le donne, mentre si sta riassorbendo il gap per livello di istruzione e per livello di reddito.
Sono meno incoraggianti i dati relativi alla familiarità con gli strumenti di pagamento digitali, che vedono le famiglie italiane poco abituate a utilizzare il telefono mobile o internet per i pagamenti (poco più del 20% rispetto al 45% in Eurozona). C’è anche una distanza rispetto alla situazione internazionale sul fronte dell’educazione finanziaria. Le conoscenze finanziarie degli italiani rimangono basse, anche se gli investitori sono più bravi di chi non investe. In merito alle competenze di calcolo, strumento indispensabile per l’accrescimento della cultura finanziaria, solo il 23% degli intervistati mostra di avere familiarità con il concetto di probabilità. Le conoscenze finanziarie delle famiglie italiane rimangono contenute: le nozioni di base (inflazione, relazione rischio/rendimento, diversificazione, mutui, interesse composto) sono comprese da circa il 50% degli intervistati, mentre per i concetti più avanzati (relazione prezzo/tassi di interesse delle obbligazioni e rischiosità delle azioni) si registrano meno del 20% di risposte corrette. Però gli investitori rispondono meglio: ad esempio, alle domande su inflazione e relazione rischio/rendimento rispondono correttamente sette investitori su 10, a fronte di cinque non investitori su 10. I dati rivelano, inoltre, un disallineamento fra conoscenze finanziarie reali e conoscenze percepite, che interessa circa il 30% degli intervistati. La propensione all’overconfidence (ossia a sopravvalutare le proprie conoscenze finanziarie) è meno frequente tra gli individui con maggiori conoscenze finanziarie. Il quadro delle conoscenze finanziarie si completa con la cosiddetta risk literacy: posti di fronte alla domanda di ordinare alcuni strumenti finanziari (azioni, fondi azionari, derivati, obbligazioni non finanziarie) in funzione del livello di rischio, solo il 10% campione è in grado di ordinare correttamente le alternative di investimento per livello di rischio.
Rischi? No grazie. La maggior parte del campione mostra un’elevata avversione alle perdite e dichiara di non essere orientata all’assunzione di rischio nelle scelte di investimento. A fine 2017 il tasso di partecipazione delle famiglie italiane al mercato finanziario si attesta al 29%; dopo i depositi bancari e i prodotti postali, le attività che pesano di più nel portafoglio degli investitori sono i fondi comuni e i titoli di Stato. Meno di un italiano su due tiene una pianificazione finanziaria e risparmia in modo regolare. La maggior parte delle famiglie italiane si caratterizza per una capacità ancora contenuta di pianificazione e monitoraggio delle scelte finanziarie (cosiddetto financial control): il 40% circa degli intervistati non tiene un bilancio familiare; il 70% delle famiglie dichiara di controllare le spese, ma solo il 30% ne tiene traccia scritta; solo un terzo degli intervistati dichiara di avere un piano finanziario e di controllarne gli esiti. Le famiglie intervistate risparmiano in modo costante (soprattutto per motivi precauzionali) in meno del 40% dei casi e in modo occasionale nel 36% dei casi; il 25% non accantona nulla, soprattutto per vincoli di bilancio. In generale, il risparmio regolare è più frequente tra i soggetti più abbienti; rilevano tuttavia anche le conoscenze finanziarie e le competenze percepite, l’abitudine a pianificare e talune inclinazioni. Gli investimenti etici e socialmente responsabili sono ancora poco conosciuti e poco attrattivi: più del 60% degli intervistati, infatti, dichiara di non averne mai sentito parlare e meno di un terzo manifesta interesse dopo essere stato informato degli elementi che in astratto li qualificano. Tra gli elementi informativi più apprezzati ricorrono quelli relativi al rischio di perdite in conto capitale e ai costi dell’investimento

I comportamenti nel processo di investimento mostrano ancora numerose criticità. La maggior parte degli intervistati dichiara di assumere le informazioni utili per l’investimento dal funzionario di banca. Solo il 25% degli intervistati fa riferimento al prospetto finanziario. La maggioranza del campione ricorre ai consigli di amici e parenti (cosiddetta consulenza informale), poco più del 20% si affida alla consulenza professionale o delega un esperto, il 28% sceglie in autonomia. Il 40% non segue i propri investimenti. Con riferimento al consulente (sia questi professionale o meno), le caratteristiche ritenute più importanti sono l’agire nel miglior interesse dell’investitore, essere competente e usare un linguaggio chiaro; più del 40% degli investitori indica l’essere sollevati dall’ansia finanziaria. Più del 50% degli intervistati non è in grado di definire in cosa consista il servizio di consulenza in materia di investimenti; nella scelta del consulente contano la fiducia e l’indicazione dell’istituto bancario di riferimento. Circa il 37% degli investitori è convinto che la consulenza sia gratuita e il 45% non è in grado di dire se essa venga remunerata, mentre il 48% non è disposto a pagare per il servizio. La disponibilità a pagare si associa positivamente con la cultura finanziaria, la conoscenza delle caratteristiche del servizio, l’orientamento al lungo termine (definito come capacità emotiva di sostenere perdite nel breve periodo) e l’abitudine a seguire gli investimenti.
Per quanto attiene al rapporto fra cliente e consulente, nella fase dello scambio informativo gli investitori ritengono importante comunicare all’esperto anzitutto la capacità finanziaria di assumere rischio e le aspettative riguardo ai rendimenti attesi. Il 30% circa dei risparmiatori che si affidano a un consulente o a un gestore dichiara di non aver avuto alcun contatto con il professionista di riferimento nel corso dell’anno precedente. Tra gli investitori che incontrano regolarmente il proprio consulente, gli argomenti principali di conversazione riguardano, dopo l’andamento dell’investimento, gli aggiustamenti di portafoglio resi necessari dalla congiuntura di mercato. In caso di turbolenze finanziarie, infine, soltanto il 20% degli investitori si rivolge al consulente o viene da questi contattato. (riproduzione riservata)

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