Tra gli obiettivi, migliorare le relazioni con partner/clienti
Pagina a cura di Sabrina Iadarola

Il business viaggia veloce. La tecnologia a supporto, basata su machine learning e intelligenza artificiale, lo fa a velocità ancora maggiore. È quello che chiedono le aziende, sempre più impegnate nei processi di trasformazione digitale. Per migliorare le relazioni con i clienti e anticiparne le propensioni d’acquisto, velocizzare al massimo i tempi di consegna delle merci, individuare sacche di inefficienza in tempo reale. Per sviluppare in sostanza il proprio business, ridurre i costi e aumentare la flessibilità. La risposta arriva dalla business intelligence e dal cognitive computing, di cui si parla da anni e che tuttavia restano entrambe materia oscura per molti, soprattutto per le pmi italiane. A fronte peraltro di un mercato mondiale del software di business intelligence e analytics che, secondo dati Idc, nel 2016 è stato pari a 20 miliardi di dollari (31,3 miliardi di dollari sarà nel 2019 la spesa mondiale in sistemi cognitivi tra hardware, software e servizi che tradotto in euro, per comprendere meglio le dimensioni, equivale a oltre 26 miliardi).

Quando parliamo di business intelligence ci riferiamo a tutti i processi aziendali che partono dalla raccolta e analisi di dati, grazie a software dedicati, con lo scopo di trarne informazioni strategiche all’azienda. Quella che, in parole semplici, qualche anno addietro (nel 2006 per l’esattezza) Paolo Pasini, docente della Sda Bocconi, aveva definito «la statistica per non statistici», per sottolineare il fatto che l’uso che si può fare dei dati non richiede particolari competenze da parte dell’utente finale. Non c’è sempre bisogno quindi di un informatico o uno statistico, è chiaro. Come lo è l’evoluzione, secondo alcune società di analisi e consulenza a livello mondiale come Deloitte e Gartner, della Business Intelligence secondo un ben preciso percorso. Che va a toccare temi quali la governance dei dati raccolti, l’apertura verso nuovi approcci collaborativi (open data) e la loro valorizzazione, anche economica. Avere la possibilità di utilizzare i dati ed elaborarli significa poter descrivere, prevedere e migliorare le performance aziendali. Significa poterli finalizzare alla gestione delle decisioni aziendali, all’analisi per la vendita al dettaglio, ai flussi di assortimento merce, all’ottimizzazione delle campagne di marketing, al web analytics, al dimensionamento della forza vendita, all’analisi di portafogli e di rischi, all’analisi su prezzi e promozioni, all’analisi contro le frodi. Li possiamo utilizzare per ricevere risposte concrete alle domande che un’azienda si pone. E siamo già un passo avanti, proprio perché non parliamo solo di raccolta dati, ma di elaborazione «finalizzata a». Con l’intelligenza artificiale appunto. Quello che per semplificare offre il cognitive computing. Ci si è resi conto che la gente e le aziende non avevano solo bisogno di analisi di dati passati, ma di fare delle previsioni sia su scenari che su cose molto semplici, come può essere un guasto a un pc oppure a un’auto. Le tecnologie sono infatti in grado di elaborare enormi quantità di informazioni, imparare in modo autonomo, interagire nel linguaggio dell’uomo e riprodurne i modelli di pensiero. In questo modo, un’impresa commerciale può avvalersi di un sistema cognitivo per standardizzare le modalità di comportamento della clientela, elaborare proposte e offerte personalizzate sulla base dei gusti dei consumatori, simulare l’andamento delle vendite per ottimizzare i flussi di magazzino, fare di un customer care a misura di singolo utente una leva commerciale. Allo stesso modo, un’azienda di produzione può fare manutenzione predittiva sui propri impianti, iniettare intelligenza nella supply chain prevenendo le inefficienze, concretizzare i propri desideri di time-to-market potendo prendere decisioni basate su maggiori elementi di certezza.

Di cognitive computing si parla già da qualche tempo e in questo involucro sono racchiusi gli strumenti che consentono di riprodurre a grandi linee il funzionamento del cervello umano. Tramite l’impiego di tecnologie di machine learning e linguaggio naturale, l’obiettivo di questa evoluzione della business intelligence è quello di dare un senso più compiuto alla massa di informazioni che le aziende si trovano a dover trattare e facilitare i processi decisionali. Quindi non solo analisi di dati, ma capacità cognitive applicate all’analisi. Secondo lo studio di SB Italia, il segmento del cognitive computing e dell’intelligenza artificiale è in fase di forte ascesa. Entro il 2018, il 75% delle aziende, nonché degli sviluppatori software, implementeranno alcune funzioni di cognitive computing in almeno un’applicazione aziendale. E ancora, entro il 2019, il 40% delle iniziative di trasformazione digitale sarà supportato proprio da capacità cognitive.

In pratica, si tratta di creare conoscenza a partire da una grande quantità di dati oggi un po’ più facilmente elaborabili grazie alle tecnologie di gestione Big Data. Le aziende, infatti, stanno sempre più aggregando montagne di informazioni interne ed esterne, delle quali l’essere umano non è più in grado di fare un’efficace sintesi. Il cognitive computing si occupa di contestualizzare le informazioni e fornire degli «insight» anche estremamente dettagliati. Per riuscirci, come abbiamo già notato, si fa appello alle tecnologie di machine learning, all’analisi dei grafi e all’elaborazione del linguaggio naturale.

In realtà, gli algoritmi utilizzati non sono di per sé nuovi, ma traggono beneficio dalla crescita esponenziale della potenza di calcolo oggi disponibile. Con l’informatica di tipo cognitivo, si esce dalla tipica modalità binaria del «sì o no»: ciò che viene predetto non è un risultato certo, ma un’indicazione basata su punteggi e correlazioni. Basata sul riconoscimento dell’ambiente e sulla sua interpretazione.

Facciamo qualche esempio concreto. Pensiamo ai sistemi di chatbot, visto che uno degli ambiti a potenziale più elevato è quello della gestione e del rafforzamento del rapporto con la clientela. Qui le tecnologie cognitive hanno già trovato applicazione pratica per esempio nel campo del cosiddetto «churn management», ovvero il tasso di potenziale abbandono di un brand (di solito per passare a un concorrente), che può essere controllato e ridotto, rilevando segnali di debolezza a partire dai dati di un Crm o dalle interazioni con i call center. «La chatbot», spiega Luca Rodolfi, responsabile della divisione di Business Intelligence di SB Italia, «è un servizio che consente via web di elaborare risposte alle domande che pongono gli utenti in chat con un linguaggio naturale, quasi umano. Pensiamo a Siri dell’iPhone». Puoi parlare a Siri in diversi modi. Puoi pronunciare «Ehi Siri» e porre la domanda. Puoi dire «Ehi Siri, che cosa puoi fare?». E Siri, il tuo assistente personale intelligente, ti aiuterà a inviare messaggi, effettuare chiamate, controllare il calendario e molto altro. «Altro esempio», aggiunge Rodolfi, «è la guida automatica delle automobili. L’Audi per esempio da anni dà la possibilità di avere nella propria automobile un sistema di riconoscimento e di interpretazione dell’ambiente». Con l’auto arrivo in prossimità di parcheggio ma non trovo posto, l’auto fa un giro e ritorna solo quando la chiamo, magari tramite app dal cellulare. «Si tratta», conclude Rodolfi, «di un’evoluzione che mostra concrete possibilità di applicazione della tecnologia e non più solo alla portata di grandi aziende di assicurazioni, bancarie, telefoniche dai budget milionari» ma alla portata di tutti (o quasi).

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