di Andrea Giacobino
Un business in crescita, forse quello a maggior tasso di sviluppo per ogni banca che lo coltiva, ma destinato nel breve periodo a essere ripensato pena una drastica diminuzione dei margini. Così la società di consulenza Oliver Wyman vede il wealth management in un lungo studio redatto assieme a Deutsche Bank intitolato significativamente «Running faster to stand still» e che affonda l’analisi tra le pieghe del settore mondiale della gestione di patrimoni. Giungendo alla conclusione che la bassa volatilità degli utili, l’efficienza del capitale e la forte crescita del fatturato hanno creato le più alte valutazioni del wealth management dalla crisi finanziaria a oggi. Tanto che oggi le divisioni delle banche al servizio degli high net worth individuals (hnwi), ossia clienti con un patrimonio investibile di 1 milione di dollari, rappresentano il 37% della valutazione della somma della parti di una banca per i principali gestori patrimoniali, più del doppio rispetto al 16% del 2007, confrontato con una quota del 28% dei ricavi.

Il report dimostra con chiarezza che negli anni post-crisi, e in particolare nell’ultimo biennio, si è ampliato il divario tra il wealth management e le altre attività bancarie commerciali. Tuttavia, quando si depura l’aumento dei ricavi della gestione dai tassi più bassi e dall’andamento del mercato, si osserva che la maggior parte della creazione di valore è stata trainata dalla crescita del bilancio. In Europa e in Nord America l’analisi evidenzia che quasi due terzi arrivino da prodotti di prestito. Non a caso Oliver Wyman ritiene che il mercato sopravvaluti la capacità di guadagno del settore, che vede avvicinarsi tre sfide significative. Anzitutto rallenterà la crescita degli asset under management; poi la pressione dei tassi accelererà; infine l’industria si troverà a un bivio, non avendo ancora affrontato in maniera strategica la crescente attenzione ai costi, in particolare nel caso di una grave correzione del mercato.
Gli attivi, anzitutto, rischiano di restare indietro rispetto a quello che i gestori patrimoniali presuppongono nei loro piani di business. Il report infatti si aspetta una crescita degli attivi in gestione solo del 5% annuo rispetto al 7% registrato nell’ultimo quinquennio. E ciò nonostante un certo numero di gestori patrimoniali, che gestiscono insieme 11 mila miliardi di dollari di asset negli Stati Uniti, stima ancora un +8/10% annuo. Guardando più da vicino i trend dietro la crescita prevista, comunque, risulta che i mercati emergenti, i quali rappresentano il 31% del patrimonio gestito complessivo, daranno un contributo pari al 58% della raccolta netta entro il 2020. Ciò indica un’opportunità importante di sviluppo del business della gestione, ma che resta di difficile accesso per molti player a livello mondiale oggi al di fuori dei principali mercati offshore. Dagli emergenti al reddito fisso, lo scenario cambia poco, poiché l’aumento dei tassi e l’ampliamento dello spread di credito (negli Usa) potrebbe portare il mercato-toro decennale a una battuta d’arresto, mentre in Europa il maggiore ricorso al Quantitative easing mitigherà l’impatto complessivo sulle attività a reddito fisso.

Il wealth management, poi, dovrà affrontare il nodo dei costi finali del cliente. Oliver Wyman, infatti, si aspetta per l’immediato futuro una continua pressione al ribasso sulle commissioni, in particolare in Europa e Nord America. Le fee di intermediazione vengono già erose dal momento che i prodotti beta a buon mercato sono diventati facilmente disponibili e sempre più accettati. Nei modelli di robo-advisory in Nord America una maggiore concorrenza tra i fornitori sta spingendo le commissioni ulteriormente verso il basso, in particolare nel segmento «hnwi core», quello dei clienti con patrimonio tra 1 e 5 milioni di dollari. Ma anche in Europa la richiesta di una maggiore trasparenza nei prezzi inizia ad avere un effetto simile.

In un mondo che chiede sempre più trasparenza sui livelli commissionali, è lecito ipotizzare un numero maggiore di clienti che inizia a mettere in discussione i prezzi. In particolare, dove gli standard del business della gestione si stanno muovendo da modelli consulenza a modelli fiduciari, i wealth manager dovranno dimostrare di saper offrire servizi con un migliore rapporto qualità/prezzo o affrontare ulteriori pressioni sulle fee. Ad esempio, i nuovi standard fiduciari imposti in primavera ai gestori americani dal Department of Labor’s (Dol) provocheranno nel breve uno scossone sui loro livelli commissionali. Nell’area Asia Pacifico, invece, dove c’è meno pressione normativa, i clienti sono già oggi comunque particolarmente sensibili al prezzo e ciò alla lunga riduce i margini. Ciò è dimostrato dal sondaggio su 2 mila clienti globali hnwi, da cui emerge che la stragrande maggioranza in Asia, e anche in Europa, è pronta a cambiare gestore se viene loro offerto un servizio più economico.

Il mercato, poi, sovrastima la capacità attuale del settore di regolare il proprio sistema operativo in caso di una significativa contrazione del mercato. I wealth manager operano infatti a livello globale con un rapporto medio di costi sul reddito (Cir ) di circa il 70%, superiore di quasi il 10% al livello pre-crisi. Negli Stati Uniti il Cir è ancora alto (circa l’80%); mentre in Europa varia dal 60 all’80% a seconda del Cir principalmente orientato all’onshore o all’offshore e alla focalizzazione sul cliente. In Asia, mentre i leader locali operano nel range 60-80%, nel complesso molti player hanno Cir superiori al 90%. Il modello americano ha quindi ingranaggi operativi più alti ma una struttura dei costi più flessibile, poiché si stima che fino al 40% dei costi oscillano con i ricavi. Viceversa i costi variabili in Europa e in Asia sono molto più bassi, del 15 e 25% rispettivamente. L’industria del wealth management, poi, lavora ancora con infrastrutture legali in molti casi duplicate in diverse aree geografiche e molti player devono tuttora investire in modo significativo in termini di rischio-compliance stanziando ulteriori capitali per adattarsi alla sfida regolamentare che è costata finora alle banche universali circa 8 miliardi di dollari. Esempi di questa sfida regolatoria includono i citati standard fiduciari del Dol negli Stati Uniti o la Mifid 2 in arrivo in Europa.

Per conservare i livelli di redditività, dice Oliver Wyman, i gestori patrimoniali dovranno considerare una serie di leve tattiche e strategiche al fine di affrontare la nuova ondata di concorrenza, conforme all’accresciuta pressione dei regolatori. Qualche esempio? Rinnovata attenzione all’acquisizione di nuovi clienti e alla gestione dei loro aspetti patrimoniali legato a previdenza/lavoro. I wealth manager dovranno inoltre eccellere nel settore dei trasferimenti intergenerazionali di ricchezza, senza dimenticare di ridisegnare il modello di servizio per la clientela «hnwi core», aumentando l’efficienza e il controllo dell’infrastruttura e digitalizzando le parti della catena del valore, in particolare nel back office. C’è un potenziale di crescita per quei player che ridurranno il Cir del 10% e i costi flessibili di un altro 20%. I vincenti sono quelli che sapranno trasformare gli investimenti diretti tradizionalmente non monetizzati in offerte che generano profitti attraverso un nuovo modello di piattaforma: l’attuazione di modelli «pay for advice» rappresenta l’opzione strategica più rilevante per affrontare la contrazione di portafoglio dei servizi tradizionali di wealth management.

Infine, c’è una crescente opportunità per i gestori patrimoniali di espandere le loro offerte filantropiche in operazioni di vera e propria beneficenza, elaborando un processo d’investimento professionale e due diligence a disposizione dei clienti. Anche il denaro a fin di bene, insomma, può servire al business per «correre più veloce» e non correre il rischio di ingranare la retromarcia dopo anni di vacche grasse. (riproduzione riservata)

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