Da verificare tipologia del contratto, condizioni, premi
Pagina a cura di Valerio Stroppa

Polizze vita liquidate dopo la morte dell’assicurato con esenzione Irpef caso per caso. La regola è sulla carta semplice: i capitali erogati a copertura del rischio demografico percepiti dai beneficiari non scontano l’imposta sostitutiva, quelli relativi rendimenti di natura finanziaria sì. A livello pratico, però, verificare la quota fiscalmente esente richiede un approfondito esame circa la tipologia del contratto, le condizioni fissate dal fascicolo informativo e la possibilità di «spacchettare» i premi versati nelle due categorie (finanziaria e assicurativa pura). È questo lo scenario che gli operatori, compagnie di assicurazioni, clienti e rispettivi professionisti, devono fronteggiare dopo le modifiche recate dalla legge di Stabilità 2015 e i successivi chiarimenti di prassi dell’amministrazione finanziaria. L’intervento normativo è giunto con la legge n. 190/2014, con effetti a partire dal 1° gennaio 2015. Prima di tale data, i capitali percepiti in caso di morte dell’assicurato dai beneficiari di contratti di assicurazione sulla vita erano del tutto esenti dall’imposta sul reddito delle persone fisiche, a prescindere dalla loro natura. Dallo scorso anno, invece, il beneficio riguarda solo le cosiddette assicurazioni «temporanee caso morte» (Tcm) e non anche i proventi originati dall’andamento finanziario di una gestione separata (è il caso delle polizze rivalutabili di ramo I), di un indice o fondo (è il caso delle polizze linked di ramo III) o di entrambe (polizze multiramo). Senza dimenticare che molte polizze possono racchiudere entrambe le finalità, di protezione e investimento, ponendo problemi applicativi al sostituto d’imposta (compagnia assicurativa) chiamato a eseguire la ritenuta in sede di erogazione del capitale dopo la morte dell’assicurato. Come chiarito dall’Agenzia delle entrate nella circolare n. 8/2016, prima, e nella risoluzione n. 76/2016, poi, in via generale è necessario calcolare la differenza tra il valore di riscatto (ossia la somma «caso vita» liquidabile all’assicurato sulla base delle condizioni contrattuali) che sarebbe stato riconosciuto al momento della morte e i premi complessivamente pagati, al netto di quelli corrisposti espressamente per la copertura del rischio demografico.

Non sempre, tuttavia, i premi versati alla compagnia hanno una «etichetta» così precisa. Si pensi al caso di un premio unico iniziale di una polizza a vita intera con cedola, che prevede una prestazione finale al momento del decesso (inclusiva della quota Tcm). Per imputare correttamente i premi, non scindibili nelle due componenti finanziaria e demografica, l’Agenzia ha fornito uno specifico criterio operativo, che suddivide le somme versate in base alla proporzione delle due componenti sul valore delle prestazioni finali. Si pensi al caso di un contribuente che sottoscrive tale prodotto versando un premio unico di 50 mila euro. Nel corso degli anni percepisce 4 mila euro di cedole. Dopo la sua morte, i beneficiari incassano 80 mila euro, di cui 25 mila a copertura del rischio demografico e 55 mila per la componente finanziaria. Il rendimento totale della polizza sarà così pari alla differenza tra le somme incassate (in totale 84 mila euro) e i premi pagati (50 mila), al lordo del risarcimento. A questo punto è necessario determinare il quoziente tra i proventi totali e la prestazione erogata (34 mila diviso 84 mila = 40,48%) e poi applicare tale percentuale di redditività al solo rendimento finanziario del contratto (4 mila + 55 mila = 59 mila). Il reddito imponibile in capo ai beneficiari sarà così pari al 40,48% di 59 mila, ossia 23.881 euro, mentre la quota esente sarà pari al 40,48% di 25 mila, ossia 10.119 euro.

Resta fermo che qualora le compagnie assicurative siano in possesso di dati certi riguardo all’attribuzione dei premi a ciascuna delle due componenti della prestazione, dovranno dare la precedenza al metodo analitico rispetto a quello proporzionale.
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