di Giuliano Castagneto
Mercoledì 5 ottobre è stata una giornata per certi versi storica per l’Italia. Quel giorno infatti per la prima volta il ministero dell’Economia ha collocato un Btp con scadenza a 50 anni, imitando la Spagna che aveva collocato un bond con scadenza 2066 nel maggio scorso, riscuotendo grande successo. Risultato bissato anche dall’emissione italiana, da 5 miliardi di euro. Lo conferma il volume di richieste, 18 miliardi di euro, 3,8 volte l’ammontare offerto. In asta il Btp 50, come è stato subito etichettato, ha offerto un rendimento lordo del 2,9%, più che doppio rispetto a un classico Btp a 10 anni, per esempio quello in scadenza l’1 novembre 2016, che rende l’1,34%. Tra l’altro, se la Bce riesce a stabilizzare l’inflazione nell’Eurozona poco sotto al 2%, il rendimento reale sarebbe lo 0,9%. Un ritorno che, stando al Credit Suisse Long Term Return Yearbook 2016, è molto inferiore al 3,5% che è la media dei 50 anni precedenti il 2016, ma è ben superiore al -1,1% della media del periodo dal 1900 al 2015.

Da questi pochi dati si capisce subito perché il 50 anni abbia avuto tanto successo. Sono infatti tanti gli investitori istituzionali, soprattutto assicurazioni e fondi pensione anglosassoni, alla disperata ricerca di strumenti in grado di offrire ritorni in grado di far fronte agli obblighi derivanti dalle polizze emesse negli anni passati, spesso a rendimento garantito intorno al 4%, e alle erogazioni previdenziali degli iscritti. Il Btp a 50 anni offre qualsiasi il 3% senza rischio valuta e senza necessità di esporsi ai notevoli rischi, spesso dovuti a instabilità politica, che implica l’investimento nei Paesi emergenti.

Detto questo, vale la pena esporsi per 50 anni sia al rischio di perdite a causa di una variazione dei tassi (non si può dare per scontato che il Qe della Bce duri mezzo secolo), sia ovviamente al rischio di credito? Il grafico a pagina 9 illustra con efficacia di quanto può variare il valore di questo titolo al variare dei tassi. Una variazione di questi ultimi dell’1% comporta una perdita del 22%. E non si può dare per scontato che i tassi nell’Eurozona restino per decenni a questi livelli. Quanto al rischio di credito, Moody’s avverte che l’Italia, pur virtuosa sul piano della politica fiscale, deve sempre vedersela con un debito pubblico che non vuole saperne di diminuire.

Ora, un investitore istituzionale, che comunque si vede assicurato un rendimento vicino al 3% per mezzo secolo, ha degli strumenti per difendersi da questi rischi, come le opzioni sui tassi e i credit default swap sul debito sovrano dell’Italia (anche se difficilmente se ne trovano sulla scadenza di 50 anni). Ma un piccolo risparmiatore difficilmente ha accesso a strategie di hedging.

Inoltre, come sottolinea giustamente la società di consulenza online Advise Only in un report, ci sono almeno tre Btp trentennali che rendono circa mezzo punto percentuale in meno, con un’esposizione nettamente più breve. Dalla tabella affianco, tra l’altro, emerge che l’extra rendimento rispetto ai bond con scadenza compresa tra il 2026 e il 2046 è appunto lo 0,5% contro l’1,05% offerto da questi ultimi rispetto al classico decennale.

Per un privato, quindi, sottolinea Marzotto sim «il Btp 50 non appare particolarmente attraente», tenuto conto dei rischi impliciti. Ci sono allora delle alternative più praticabili? A parte l’ovvia proposta dei titoli emessi da operatori dei paesi emergenti, che come accennato prima richiedono di esporsi a notevoli rischi sulla valuta e sulla solvibilità dei debitori, si fa sempre più interessante l’opportunità di investire in azioni di aziende che pagano elevati e stabili dividendi, come quelle riportate nella tabella in pagina.

Azioni come bond? In un certo senso sì, considerato che un’azione, soprattutto di un’azienda attiva in un business maturo, è come comprare un bond privo di scadenza. Allo stesso tempo, comprare un Btp a 50 anni equivale a esporsi sine die al rischio dell’Azienda Italia, puntare per decenni sulla stabilità dei conti pubblici.

A questo scopo, Milano Finanza ha provato a confrontare il dividend yield (dividendo/prezzo dell’azione) con il rendimento dei titoli obbligazionari a lungo termine emessi da tre grandi gruppi internazionali, e altrettanti gruppi italiani, che si distinguono non solo per i risultati aziendali ma anche per la generosità con cui remunerano gli azionisti, in proporzione al prezzo dei rispettivi titoli. Si tratta di Apple, Siemens , Nestlè per le multinazionali, e di Intesa Sanpaolo , Generali ed Eni in rappresentanza dell’Italia. Sei gruppi che offrono cedole allettanti ai soci ma anche buoni coupon a chi sottoscrive le loro emissioni obbligazionarie. Un’analisi condotta sul periodo 2013-2016 rivela che in quatto casi su sei i rendimenti dei bond emessi sono inferiori, in alcuni casi sensibilmente, a quelli delle azioni. In un caso, Nestlé, il rendimento del bond è praticamente identico a quello dell’azione, il 3,1%, e solo in un caso, Apple, è l’obbligazione a rendere più dell’equity.

Occorre a questo punto fare delle precisazioni. Anzitutto il dividend yield è molto più volatile del rendimento del bond, per il semplice motivo che un’obbligazione, soprattutto a tasso fisso, offre un flusso di pagamenti che è stabile per contratto, mentre il dividendo può variare di anno in anno a seconda dell’andamento del business. Inoltre, il prezzo di un bond dipende dalla differenza tra il rendimento che offre e quello richiesto dal mercato per la stessa scadenza, valuta e classe di rischio. Il prezzo di un’azione dipende dalle aspettative del mercato sulle prospettive future dell’azienda, oltre che dalla redditività presente.

Infine, il management può anche decidere di remunerare gli azionisti con un riacquisto di azioni proprie, mossa che di solito fa salire i corsi del titolo, comprimendo il rendimento della cedola.
Ecco quindi che quello che sembra un vero affare, l’azione Intesa Sanpaolo , che offre un dividend yield molto elevato, e molto superiore rispetto a quello dell’anno precedente, ma non bisogna dimenticare che il settore bancario di Piazza Affari è stato falcidiato negli ultimi mesi dalla paura dei mercati delle sofferenze e dello spettro del bail-in. Ne ha sofferto anche il titolo della Ca’ de Sass, che da inizio 2016 ha perso il 35%. Nel frattempo il rendimento dei bond a 10 anni si è progressivamente ridotto, beneficiando anche dell’effetto delle varie manovre della Bce, soprattutto il Qe, che hanno compresso i rendimenti dei titoli di Stato e di converso anche quelli degli istituti di credito più solidi, come appunto Intesa Sanpaolo .

Discorso analogo vale per Generali . Anche il Leone di Trieste ha patito la bufera scoppiata sui titoli finanziari, e da inizio gennaio ha lasciato sul parterre di Piazza Affari il 33%.

Per quanto riguarda Eni , il rendimento dell’azione, il 6% circa, sembra molto meno allettante rispetto all’anno scorso. Questo perché, sebbene il dividendo previsto per il 2016, 0,8 euro, sia invariato rispetto al 2015, tuttavia negli ultimi giorni il titolo ha messo a segno un sensibile recupero dovuto alla ripresa del prezzo del petrolio, con entrambe le varietà di riferimento, Brent e Wti, tornate sopra la barriera dei 50 dollari giovedì 6 ottobre, grazie alle voci di possibile accordo tra i produttori sull’introduzione di un tetto alla produzione. Nel frattempo il debito a lunga scadenza del Cane a sei zampe, a causa delle turbolenze che hanno investito il mercato del greggio nel corso dell’anno, ha visto salire il rendimento di circa 30 punti base dall’inizio del 2016. Quindi le azioni Eni offrono circa 1,2 punti percentuali in più rispetto al bond.

Tra i bond esteri, invece, non esiste una grande differenza tra i rendimenti di debito ed equity. Nel caso di Apple l’azione rende di meno, ma la Mela di Cupertino ha tradizionalmente fondato la sua appetibilità soprattutto sull’apprezzamento del titolo, grazie alla costante crescita del business.
Siemens, che beneficia di una grande presenza sui mercati emergenti, soprattutto la Cina, che ne fa una delle punte di diamante dell’export tedesco, offre un dividend yield di poco superiore a quello del debito. Nestlé, come detto, è quasi perfettamente allineata.

Ne consegue che di volta in volta, a seconda delle fluttuazioni dei mercati, possa convenire essere creditori oppure azionisti di un’azienda. Da quanto mostrato dai grafici a pagina 8 emerge che in questo momento, almeno sulle azioni italiane, rende molto di più esserne azionisti. Ma, a parte il caso Eni , va tenuto conto che sul rendimento dei bond si fa sentire l’effetto Bce, che non durerà ancora per molto, mentre le azioni paiono molto più a buon mercato per quello che rendono. Varrebbe la pena approfittarne. (riproduzione riservata)
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