di Andrea Pira

Più o meno nelle stesse ore in cui la polizia tedesca perquisiva gli uffici Volkswagen nella sede di Wolfsburg e in altre località in Germania, dall’altra parte dell’Atlantico, Michael Horn, a capo della divisione Usa del colosso tedesco, chiedeva scusa davanti al Congresso americano per aver truccato i test sulle emissioni nello scandalo che ha investito Wolfsburg.

Già nella primavera del 2014 la controllata americana era stata informata di possibili casi di non conformità sulle emissioni, ha ammesso il top manager davanti ai parlamentari della commissione Energia e Commercio. Horn ha quindi spiegato di aver ricevuto rassicurazioni sul fatto che gli ingegneri avrebbero lavorato con le autorità competenti. «Abbiamo infranto la fiducia dei clienti, dei concessionari e dei dipendenti, oltre che quella dell’opinione pubblica e dei regolatori», ha detto l’ad della divisione Usa, allontanando da sé ogni responsabilità e dicendosi all’oscuro del fatto che i problemi fossero legati alla manomissione dei dati attraverso un software. «Non è stata una decisione aziendale, nessun board ha dato l’approvazione», ha sottolineato. Le responsabilità ricadrebbero invece su pochi ingegneri. Una spiegazione che non ha convinto appieno i membri del Congresso, alcuni dei quali scettici sulla possibilità che il manager fosse rimasto ignaro di tutto per anni e anni, venendo a conoscenza del software soltanto a ridosso dell’esplosione dello scandalo il 3 settembre scorso. 
Poca chiarezza c’è stata inoltre sulle soluzioni che l’azienda intende adottare per risolvere la peggiore crisi della propria storia. Anche sull’arco temporale Horn è stato vago. Per sostituire i dispositivi e sanare le manipolazioni dei veicoli statunitensi potrebbero essere necessari uno o due anni. Dal discorso preparato per l’audizione è comunque emerso come Volkswagen abbia ritirato la richiesta di certificazione dei veicoli diesel 2016 inviata alle autorità di vigilanza degli Stati Uniti perché includono un software di controllo delle emissioni che richiede l’approvazione delle stesse autorità. Dal canto loro, gli inquirenti tedeschi sono alla ricerca di documenti e dati che possano portare ad accertare le responsabilità per l’installazione del programma incriminato, montato, secondo quanto ammesso dalla stessa Volkswagen, su 11 milioni di auto. «Dobbiamo evitare che a pagare per i crimini siano i dipendenti», ha commentato il vice-cancelliere Sigmand Gabriel, in visita alla sede della casa automobilistica nello stesso giorno della perquisizione. Per il politico socialdemocratico occorre fare attenzione, in modo da non travolgere l’intero comparto del diesel. Chi invece attende ancora informazioni da Volkswagen, dall’autorità di vigilanza tedesca Kba e dall’Epa statunitense è l’Italia. In un’audizione alla Camera, il viceministro dei Trasporti, Riccardo Nencini, ha spiegato di aver sollecitato dati formali e ufficiali, ma di non aver ancora ricevuto risposta. «Volkswagen ci ha parlato di oltre 648 mila veicoli», ha sottolineato, ma non ci sono indicazioni sul fatto che sia il numero di veicoli che sarà ritirato, né quando questo sarà fatto. «L’Italia», ha ribadito il ministro Graziano Delrio, «preme affinché si adotti al più presto un nuovo sistema di prove su strada che sostituiscano quelle in laboratorio». (riproduzione riservata)