di Valerio Stroppa 

 

Un argine all’esecuzione in Italia di risarcimenti stabiliti da giudici di altri paesi in cause civili tra soggetti esteri. La sentenza straniera può trovare applicazione solo se il tribunale che l’ha pronunciata poteva essere qualificato come «competente» in base ai principi sulla competenza giurisdizionale propri dell’ordinamento italiano.

Per questo motivo, i conti correnti detenuti in Italia dal governo dell’Iran non sono aggredibili dai familiari di una cittadina americana morta in un attentato terroristico in Israele, nonostante il risarcimento disposto dalla Corte distrettuale di Washington D.C. Questa la decisione assunta ieri dalle Sezioni unite civili della Cassazione, che con la sentenza n. 21946/15 mettono la parola fine su una vicenda giudiziaria che vede contrapporsi da oltre un decennio gli avvocati delle vittime, le autorità americane, i diplomatici iraniani e il ministero degli esteri italiano.

 

La vicenda

Tutto inizia il 10 aprile 1995 quando Alisa Flatow, studentessa americana di 21 anni, muore a seguito di un’esplosione causata da un kamikaze nella Striscia di Gaza. L’attentato era stato rivendicato da una fazione di Hamas nota come Shaqaqi. La quale, secondo i giudici americani, aveva ricevuto risorse e supporto dallo stato iraniano. Per questo motivo la U.S. District Court for the District of Columbia condannava il governo di Teheran a versare ai familiari della vittima 251 milioni di dollari.

Nell’impossibilità di ottenere il risarcimento negli Usa, i parenti hanno chiesto l’exequatur della pronuncia in Italia, alla luce del fatto che l’Iran deteneva ingenti risorse finanziarie presso una banca di Roma. Nel giugno 2004 la Corte d’appello di Roma dava il suo ok, ma la sentenza veniva annullata nel 2007 dalla Cassazione per un vizio di notifica. Il giudizio di delibazione veniva riproposto dai familiari. A quel punto interveniva anche il governo italiano, chiedendo il rigetto dell’istanza: secondo la Farnesina, dovevano applicarsi l’immunità giurisdizionale degli stati e l’impignorabilità dei rispettivi beni sanciti dal diritto internazionale, al quale l’articolo 10 della Costituzione fa riferimento.

 

L’ultimo verdetto

L’8 luglio 2013 la Corte d’appello di Roma rigettava la domanda di riconoscimento dell’esecutività della sentenza americana. Ieri l’ultimo verdetto. La sentenza, redatta dal giudice Alberto Giusti e firmata dal primo presidente della Cassazione Giorgio Santacroce, afferma che l’immunità a favore degli stati prevista dalle consuetudini internazionali non può trovare applicazione in presenza di crimini di guerra o contro l’umanità (tra i quali rientra il terrorismo). Ciò in quanto la sentenza n. 238/2014 della Corte costituzionale ha stabilito che l’immunità «non può valere in relazione ad azioni lesive della persona umana, trattandosi di un principio qualificante il nostro sistema costituzionale, saldamente ancorato alla tutela della dignità umana e dei diritti inviolabili e ai principi di pace e giustizia nelle relazioni internazionali».

 

I principi

Il collegio di legittimità evidenzia tuttavia che «ai fini del riconoscimento della sentenza straniera l’articolo 64 della legge n. 218/1995 richiede la presenza della competenza internazionale del giudice straniero, da valutarsi in base ai principi sulla competenza giurisdizionale propri dell’ordinamento italiano».

Devono applicarsi, cioè, i criteri di collegamento territoriale stabiliti dal codice di procedura civile. E nel caso degli Stati Uniti questi non si sono manifestati: primo, perché il «Foreign sovereign immunities act», che lega la giurisdizione Usa alla nazionalità dell’attore, «non è coerente con i criteri sulla competenza giurisdizionale propri dell’ordinamento italiano»; secondo, perché l’Iran non era rappresentato negli Stati Uniti, essendo le relazioni diplomatiche tra i due paesi venute meno dal 1979; terzo, perché sia la condotta illecita (l’attentato terroristico) sia l’evento dannoso (la morte della studentessa) «si sono interamente verificati al di fuori degli Stati Uniti, nel territorio di Gaza, e rispetto a essi non è mai stata esercitata un’azione penale innanzi a un giudice statunitense».

In definitiva, concludono gli ermellini, «nessuno dei titoli di giurisdizione propri dell’ordinamento italiano consentiva alla Corte del distretto della Columbia di decidere la controversia sottoposta alla sua cognizione». Da qui il rigetto del ricorso.

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