di Paola Valentini

Mentre il tema della flessibilità per permettere un’uscita anticipata ha assunto i connotati di un fiume carsico, perché compare e scompare nel dibattito politico con elevata frequenza, i lavoratori italiani possono contare almeno su una certezza. Dal 2016 scatterà l’aumento di quattro mesi dei requisiti per andare in pensione.

Si tratta dell’adeguamento periodico introdotto da una legge del 2010 (governo Berlusconi) con cadenza triennale per tenere conto dell’allungamento della vita. La riforma Fornero del 2011 accelerò il meccanismo prevedendo dal 2019 scatti ogni due anni. In sostanza per le lavoratrici dipendenti del settore pubblico, per i lavoratori dipendenti del privato e del pubblico e per gli autonomi l’asticella della pensione di vecchiaia salirà a 66 anni e sette mesi di età (era di 66 anni e tre mesi). Invece per le dipendenti del settore privato lo scalino sarà più alto, perché la legge prevede un percorso ad hoc che fa passare l’età minima da 63 anni e nove mesi in vigore fino a fine 2015 a 65 anni e sette mesi.

Stesso percorso per le lavoratrici autonome: dai 64 anni e nove mesi si salirà dal 2016 a 66 anni e un mese dal gennaio 2016. Il tutto però con almeno 20 anni di contributi. Mentre l’anzianità contributiva per avere la pensione anticipata a qualsiasi età diventa, per il triennio 2016-2018, 41 anni e 10 mesi per le donne, dai 41 anni e sei mesi attuali, e 42 anni e 10 mesi per gli uomini, rispetto ai 42 anni e sei mesi fino a fine 2015.

Conteporaneamente dal 2016 scatteranno per le pensioni calcolate con il contributivo i nuovi coefficienti di trasformazione del capitale in pensione (in vigore per il triennio 2016-2018) che saranno più bassi dei precedenti, sempre per tener conto dell’allungamento della speranza di vita. Le simulazioni di Progetica, società indipendente di consulenza finanziaria, mostrano gli effetti di queste novità. In tabella, per 30-40-50-60enni dipendenti e autonomi Progetica ha indicato l’età di pensionamento e l’ammontare dell’assegno in tre casi: senza nessun adeguamento per l’aumento della speranza di vita, adeguando solo i requisiti per accedere alla pensione, adeguando requisiti e coefficienti di trasformazione (sistema attuale).

L’esito? «In sintesi, viene richiesto ai lavoratori uno scambio tra tempo e pensione. L’assegno pensionistico è simile, ma al costo di andare in pensione dopo. Il che peraltro è neutro in termini di ricchezza, poiché si percepisce lo stesso assegno pensionistico e lo si gode per un pari numero di anni. Il meccanismo sarebbe dunque sostenibile per le finanze pubbliche ed equo finanziariamente per il cittadino», afferma Andrea Carbone di Progetica. Ma «il vero tema da affrontare è se il mondo del lavoro sia o sarà pronto per valorizzare lavoratori di 67 o 70 anni. Perché in caso contrario gli effetti sulla pensione del lavoratore non sarebbero neutri. Le proposte di flessibilità sull’età di uscita potrebbero introdurre utili elementi per pianificare la propria situazione lavorativa e previdenziale». (riproduzione riservata)