Nonostante la volatilità estiva dei mercati, nei nove mesi il rendimento medio dei negoziali è stato dell’1,1%. È la metà del 2,2% di fine giugno. Ma pur sempre sopra lo 0,9% del Tfr aziendale

di Paola Valentini  

I rendimenti dei fondi pensione negoziali tengono la rotta, nonostante un’estate funestata dalla crisi greca prima e dello scoppio della bolla azionaria in Cina e sul finire dalla sbandata di Volkswagen. I comparti di categoria, in base ai dati raccolti da MF-Milano Finanza, hanno chiuso i nove mesi con un risultato medio netto dell’1,1%. Certo si tratta della metà rispetto a quel lusinghiero 2,2% con cui avevano archiviato i primi sei mesi dell’anno, ma il dato consente comunque ai negoziali di battere la rivalutazione dello 0,9% netto del Tfr in azienda (che si rivaluta dell’1,5% fisso più il 75% dell’inflazione Istat).

Si tratta inoltre di un risultato positivo se letto alla luce di un primo trimestre che è stato eccezionale per i mercati e in cui i negoziali avevano reso il 4,3% medio rispetto allo 0,3% del Tfr. In generale quindi i negoziali sono riusciti a beneficiare del buon andamento dei mercati nella prima parte dell’anno, attenuando la flessione rilevata nell’ultimo periodo che ha colpito sia i bond sia le borse. In ogni caso a mettere a segno le performance più elevate sono le linee più esposte all’azionario. Un segnale importante che, viste le previsioni sugli andamenti dei mercati, deve essere guardato con attenzione dagli iscritti. Intanto, sul fronte degli investimenti, come ha affermato di recente Enrico Martini, membro della segreteria tecnica del ministro dello Sviluppo economico, «è allo studio l’ipotesi di ampliare anche a fondi pensione e a casse di previdenza la possibilità di fare credito diretto alle imprese, così come è già stato previsto per le compagnie di assicurazione». Ma la misura non convince il mondo della previdenza. «Siamo aperti a tutte le soluzioni, ma bisogna considerare che i fondi pensione e le casse di previdenza hanno come ruolo quello di investire i propri attivi per realizzare il migliore reddito possibile nella sicurezza degli investimenti per i propri iscritti», avverte Sergio Corbello, presidente di Assoprevidenza, «mentre fare credito è un’attività complessa, che presuppone una forte competenza tecnica». Per Corbello bisogna «trovare modalità che concilino sicurezza e rendimento e del resto l’Italia è fatta da piccole imprese, il che rende più complicato lo sviluppo di fondi di credito come invece accade altrove, dove gli istituzionali si trovano come interlocutori aziende di maggiori dimensioni».

In tema di gestione è stato adottato nell’ultimo scorcio del 2014 il decreto (166) sui limiti di investimento delle risorse dei fondi pensione che sostituisce gradualmente la precedente disciplina che risale al 1996. «Il panorama è mutato sensibilmente a fine 2014, grazie al decreto 166 che ha allentato le restrizioni sugli investimenti», sottolinea Jeremy de Pessemier, investment strategist di State Street

Global Advisors, che è il primo gestore straniero in Italia di fondi pensione. Tra le modifiche previste è ora consentito investire fino al 20% in fondi alternativi, in commodity (fino al 5%), acquisire esposizione in valuta diversa dall’euro (30%), investire nei listini dei Paesi non Ocse e detenere un minimo del 70% in titoli quotati (compresi fondi comuni armonizzati) e un massimo del 30% in titoli non quotati. «Il decreto 166 potrebbe incidere significativamente sulla politica di numerosi fondi pensione, ad esempio consentendo l’esposizione sui mercati emergenti», spiega de Pessemier. Ma proprio questa maggiore libertà è arrivata in un momento di forte volatilità per i mercati, soprattutto quelli emergenti. Motivo per cui «gli investitori dovrebbero utilizzare di più gli strumenti per la gestione del rischio di ribasso», conclude de Pessemier. (riproduzione riservata)