di Francesca Vercesi

L’idea che i promotori finanziari italiani hanno nei confronti della rete mandante non è certo univoca, soprattutto alla luce del fatto che ciascuna punta ad avere (e a difendere) un proprio modello di business e di prodotto. E ci sono delle leve che, al netto di una molteplicità di percezioni differenti, fanno sì che alcune influenzino in misura maggiore la soddisfazione complessiva dei professionisti, grazie al combinato disposto di variabili concrete e intangibili.

A contare, per esempio, «è la capacità di far sentire il pf al centro del modello di business. Un’attenzione che si concretizza spesso in incontri sul territorio della direzione della rete, in convention e, più in generale, in momenti di aggregazione, fondamentali per motivare le reti. Aumenta anche l’importanza dei prodotti di investimento, delle operation, della digitalizzazione delle procedure e della dotazione informatica a disposizione», afferma Nicola Ronchetti, direttore di Gfk Eurisko. Queste considerazioni emergono dall’indagine annuale (di cui Ronchetti è ideatore e curatore), che MF-Milano Finanza ha in esclusiva, dal titolo «Pf Monitor 2015: monitoraggio del mondo dei promotori finanziari», dal 2002 l’osservatorio più completo sul mondo dei pf italiani. Giunta alla XIV edizione, l’analisi tratta dei driver della soddisfazione dei promotori finanziari verso la società mandante e dei fattori di scelta delle sgr ed è basata su un campione che rappresenta oltre il 90% dell’universo rappresentato dalle reti di promotori finanziari. Le interviste ai pf sono fatte ogni anno nei mesi di giugno e luglio. Dall’indagine 2015 emerge quindi che remunerazione, benefit, tempi di apertura dei contratti, supporti forniti in tema di marketing, frequenza e qualità informative sui mercati, dotazione informatica, uso del web al posto della carta rendono una rete più interessante di un’altra. E ancora, la frequenza e la qualità delle comunicazioni tra società e pf, la facilità con cui è possibile interagire con la società, l’efficienza della formazione. Continua Ronchetti: «Nella relazione rete/pf, al di là degli aspetti di operation, piattaforme, compensation, diventa sempre più rilevante l’attenzione che la società riserva loro. In altre parole, è la valorizzazione del capitale umano, valori intangibili che in genere restano relegati in qualche angolo e che invece fanno la differenza. Di conseguenza, le reti che hanno livelli di soddisfazione più alti hanno anche livelli di committment più alti. Ci sono aziende che hanno l’apparenza di macchine perfette dove, però, i vertici non dialogano e non incontrano».

 

I criteri di selezione di una sgr. Come si arriva a scegliere una sgr? Un aspetto vincente agli occhi dei pf è la capacità di proporre prodotti innovativi e esclusivi e di fare advisory più che di insistere sui rendimenti passati. «Il target dei promotori, in altre parole, è influenzabile esattamente come lo può essere il cliente finale. Le grandi sgr che lavorano molto sul tema del multiasset e dell’income riescono a fare breccia nella loro testa, più ancora di quelle che insistono sul concetto di performance», aggiunge Ronchetti. E commenta: «Sono ovviamente vincenti le società che investono in pubblicità diretta ai professionisti ma anche ai loro clienti finali. In questo modo si autopromuovono agli occhi del pf e del bacino degli utenti potenziali. La logica è piuttosto anglosassone». Ma con l’arrivo di Mifid 2 anche in Europa potrebbe esserci il rischio di disintermediazione rispetto al promotore e alle reti di distribuzione, almeno sui segmenti più giovani e dove il professionista non riesca a valorizzare adeguatamente il suo valore aggiunto. Oggi e in prospettiva le sgr stanno comunicando con canali tradizionali, non più B2B (business to business) ma anche B2C (business to consumer).

Si potrebbe dunque aggiungere un canale parallelo dove il cliente compra sulla carta e che potrebbe far contento anche il pf che non deve mettersi a raccontare cosa fa quella determinata società. «Quando abbiamo lanciato le prime ricerche sui fondi comuni, nel 1994, dovevamo specificare agli intervistati che il fondo comune era un prodotto finanziario e non un appezzamento terriero. Oggi c’è una cultura molto più diffusa, anche nelle terminologie. Se a questo si aggiunge il fatto che non si possono più fare investimenti privi di rischio, ecco che inevitabilmente lo sguardo si rivolge ai fondi e questo va nella direzione dell’apertura del mercato», prosegue Ronchetti. Ma l’esclusività e la specificazione dei prodotti sono sempre più difficili in un contesto mass market dove, in primis, anche solo i nomi dei fondi si assomigliano sempre di più. «Il pf si chiede: se i comparti sono tutti uguali, su che base faccio la mia scelta? Ed ecco che più la sgr è in grado di differenziarsi e più sarà in grado di esprimere un elemento di unicità e entrare nei portafogli. Ma questo processo è sempre più complesso dato che, in questa fase, è in atto un movimento di riduzione e di controllo che non c’era qualche anno fa. Le reti, in altre parole, stanno chiudendo i recinti e cominciano a controllare maggiormente le sgr», dice Ronchetti.

Dal Pf Monitor emerge che negli ultimi anni è in riduzione il numero di sgr che i pf vorrebbero in portafoglio, complice un’offerta che fatica a differenziarsi e la spinta delle mandanti a offrire un’architettura aperta ma guidata (grafico in pagina). «Del resto, ogni operazione scelta comporta un lungo e costoso lavoro, a cominciare dalla due diligence», taglia corto l’esperto. Il tema della specializzazione, quindi, è sempre più importante per le sgr. «Se da un lato devi avere le performance, dall’altro devi avere la brand reputation e devi essere associato, nel caso di un prodotto, a una specializzazione. È complicato perché questo è diventato ormai un mondo di commodity», conclude Ronchetti. (riproduzione riservata)