di Giusy Pascucci  

 

Tagliare da una «timida» legge di stabilità le tasse su lavoro e imprese di almeno 2 punti di Pil e cancellare quelle su previdenza integrativa e Tfr. Rivedere un Job act «generico e ambiguo». Il segretario generale della Uila-Uil Stefano Mantegazza, che aprirà oggi, a Roma, il V congresso nazionale della Unione italiana lavoratori agroalimentari, non fa sconti al premier Matteo Renzi.

E lo invita ad un confronto serio per una buona riforma del lavoro perché, dice, «un tweet non potrà mai sostituire un accordo sindacale». Domanda. Come giudica l’azione del governo Renzi in Europa? Risposta. Con i vincoli attuali, l’Europa e Italia torneranno a crescere dell’1% nel 2017; un obiettivo che avrà comunque una ricaduta marginale sull’occupazione, lasciando l’Europa, con 26 milioni di disoccupati, un continente senza futuro alla deriva del mondo globale. Molto ci divide da Renzi ma condividiamo il suo impegno per cambiare la politica economica europea che non può esaurirsi nel rispetto di regole ma deve fare scelte strategiche, prima delle quali ridurre la disoccupazione, non i deficit; per questo crediamo che allentare il patto di stabilità sia una battaglia giusta. È necessario rivedere i parametri di Maastricht e la Bce deve mettere carburante nel motore della ripresa. Bisogna escludere dal patto di stabilità gli investimenti cofinanziati dai fondi europei e chiedere all’Europa di cambiare le modalità di calcolo del pil, tenendo conto di nuovi elementi: consumo di territorio e materie prime, inquinamento, livelli di istruzione.

D. Sul fronte nazionale il premier passa l’esame?

R. Era partito bene con il bonus da 80 per i redditi più bassi e l’Irap ridotta alle aziende. Poi abbiamo visto rallentare il suo impeto riformatore. Lo scarto tra quel che Renzi dice e ciò che fa cresce di giorno in giorno, così come le sue promesse, che accendono speranze senza poterle realizzare.

D. Nella legge di stabilità non ci sono misure concrete per far ripartire il paese?

R. Occorre osare di più. Serve tagliare le tasse su lavoro e imprese di almeno 2 punti di pil (33 mld), riducendo in egual misura la spesa pubblica. Le poche tasse introdotte, inoltre, picchiano duro su previdenza integrativa e Tfr, trattamento di fine rapporto, al solo scopo di fare cassa e compromettono il futuro previdenziale dei più giovani. Vanno cancellate! Non mancano poi le contraddizioni. Nel 2015 ci saranno 200 milioni in meno per la fiscalità di vantaggio sui premi di produzione, smentendo lo stesso Renzi che, solo 20 giorni fa, annunciava alle parti sociali che la legge di stabilità avrebbe sostenuto e agevolato la diffusione dei contratti decentrati! Questa legge è, infine, pervasa da un senso di provvisorietà: molte scelte dureranno solo tre anni. Un paese che diventa sempre più precario anche sul piano del diritto.

D. Che pensa del Job act?

R. Non entro nel merito di un provvedimento generico e ambiguo, approvato in fretta e furia nella speranza di ammorbidire Bruxelles sulla legge di stabilità. La delega, paradossalmente, non prevede modifiche dell’art. 18. Quindi, se il governo decidesse di farle, ferirebbe la Costituzione e la democrazia del nostro paese. Certo, ci sono vistose tracce del tentativo di restituire competitività alle imprese, semplicemente riducendo salari e tutele del lavoro. Se è questa la scelta finale del governo, la risposta del sindacato sarà forte e determinata. D. C’è una strada che consiglia di prendere al premier? R. Il mio consiglio è di riflettere sulla bontà di uno stile di governo che pretende di riformare il lavoro senza un confronto serio con il sindacato che viene trattato con sufficienza, se non con fastidio. Si convinca che per varare una buona legge sul lavoro, un “tweet” non potrà mai sostituire un accordo sindacale.

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