Sara Bennewitz

I n principio fu per Telecom Italia, ma di fatto la riforma del Testo unico della finanza caldeggiata dal Senato e abbracciata dal governo avrà effetti a cascata su una serie di aziende quotate come Camfin, Pirelli, Mediobanca, Generali, RcsMediagroup. La mozione Matteoli-Mucchetti sta per essere recepita da un decreto legge, dovrà essere approvata dalle Camere, diventare esecutiva ed essere ripresa da un regolamento Consob. M a prima che l’iter venga completato, avvocati, esperti di governance e banchieri si interrogano sulle possibili conseguenze e sull’opportunità di questa mozione. La cosa curiosa è che gli avvocati d’affari, che pure avrebbero un vantaggio indiretto dalla riforma che dovrebbe alimentare i contenziosi con la Consob, sono invece tra i più scettici al riguardo. «Quando si interviene su un quadro normativo complesso per regolare le conseguenze di un caso specifico occorre valutare bene gli effetti dell’intervento sul contesto generale – spiegano Carlo Montagna e Mauro Cusmai, dello studio legale Bonelli Erede Pappalardo – Non siamo sicuri che ci sia stato il tempo per compiere una verifica di così ampio respiro. Le prospettate modifiche al Tuf da un lato sembrano introdurre criteri di discrezionalità non facilmente conciliabili con la necessità di certezza imprescindibile per un corretto ed efficiente funzionamento dei mercati finanziari e, dall’altro, paiono addirittura andare oltre il mandato contenuto nella mozione del Senato. Infatti non solo

si pensa all’introduzione di una nuova soglia Opa “variabile”, ma si propone addirittura di consentire agli Emittenti di modificare, attraverso interventi sul proprio statuto, la soglia che ha finora costituito il cardine della normativa, ossia quella del 30%». E anche la scelta dei criteri in base a cui verificare se c’è il controllo di fatto, si presta a non poche critiche. «Il concetto di controllo di fatto è molto opinabile, aumenta l’incertezza e rischia di far proliferare i ricorsi contro le decisioni della Consob – spiega Luigi Arturo Bianchi, partner dello studio d’Urso Gatti Bianchi -Nel merito, non si vede perché bisogna scegliere il criterio delle due assemblee, visto che il cda dura in carica tre esercizi. D’altra parte, è semplicistico affermare che la nomina della maggioranza del cda attribuisca automaticamente il controllo, se ad esempio in consiglio sono presenti più indipendenti che amministratori esecutivi oppure, come spesso capita, decisioni cruciali sono demandate a manager, come il direttore generale, che non siedono in consiglio. Ma, soprattutto, il “lodo Matteoli Mucchetti” è in contrasto con la nozione di controllo dei principi contabili Ias/Ifrs, applicati anche ai bilanci italiani, per i quali conta il potere di governare i flussi di cassa e di reddito di un’impresa e non (necessariamente) il controllo del cda (sovente non sufficiente allo scopo». MENO SCATOLE MA ANCHE MENO OPA Un banchiere fa invece notare come la riforma renderà la vita dura a coloro che governano con una quota inferiore al 30%, perché eliminerà il vantaggio di costruire un nocciolo duro che in quanto tale, ha più valore rispetto alle azioni che custodisce. Chi in futuro avesse il 29,9% di un’azienda ed esercitasse il controllo di fatto, dovrà trovare qualche escamotage per non controllare il consiglio, perché altrimenti sarebbe difficile trovare molti compratori pronti a rilevare il suo pacchetto e a lanciare un’Opa allo stesso prezzo. Se però non eserciti il controllo di fatche to con una minoranza rilevante, dato che non governi né l’assemblea né il consiglio, sarà difficile incassare un premio generoso per la vendita di questo pacchetto. Il caso di Impregilo, in proposito è stato esemplare, dato che con una quota di controllo di fatto pari al 29,9%, Igli non è riuscita comunque a impedire a Pietro Salini di rastrellare in Borsa una simile partecipazione, convocare un apposita assemblea, azzerare il vecchio cda ed esprimerne uno nuovo. Poi gli esperti ricordano anche che Salini ha lanciato un’Opa, solo perché altrimenti non avrebbe potuto portare a termine la fusione tra Impregilo e la sua società di costruzioni. Ma in futuro l’Offerta pubblica per le minoranze potrebbe anche non arrivare. «Se l’intento è quello di aumentare la contendibilità delle aziende quotate e condividere con le minoranze il premio per il controllo – spiega Nicola Asti, responsabile dell’M& A di Freshfields – c’è il rischio che si ottenga l’effetto contrario, perché in un mercato già asfittico quanto a fusioni e acquisizioni, il criterio del controllo di fatto potrebbe essere percepito come non sufficientemente determinato, con l’effetto di dissuadere gli investitori dal considerare operazioni di M&A». Ad esempio l’Opa su Camfin che è stata promossa a fine estate, probabilmente non si sarebbe mai verificata, per evitare il rischio di un’Offerta a cascata anche sulla Pirelli. O almeno ci sarebbero stati seri dubbi su questo dato che Camfin non controllava la maggioranza assoluta del patto di sindacato di Pirelli, ma provare che non esercita il controllo di fatto sarebbe pane per giuristi e avvocati. IL CASO TELEFONICA – TELECOM ITALIA Del resto se a settembre Telefonica avesse dovuto riconoscere a tutti i soci Telecom lo stesso premio pagato ai soci Telco, probabilmente l’operazione non ci sarebbe stata, la holding si sarebbe sciolta e il gruppo sarebbe comunque stato il maggior azionista con il 10%. Invece Telefonica ha pagato le Telecom 1,1 euro, il doppio rispetto al valore nominale e a quello delle quotazioni del mercato del momento, nonché dei tre mesi precedenti all’operazione. In ambienti finanziari si fa poi notare che Telefonica ha scelto di pagare Generali, Mediobanca, Intesa Sanpaolo con azioni proprie, e non in contanti: un espediente non casuale a detta degli esperti, in futuro potrebbe servire a giustificare i termini di un’offerta pubblica di scambio (Ops) in azioni del gruppo spagnole sulla Telecom Italia. Negli ultimi cinque anni un premio del 100% in contanti rispetto alle quotazioni di Borsa per rilevare il 100% di un’azienda non si è mai visto, e il prezzo pagato, insieme alla quota e alla quantità di titoli rilevati, è uno dei criteri che la Consob deve tenere in considerazione nello stabilire se scatta o meno l’obbligo di promuovere un’Opa sul mercato. Se peraltro Telefonica avesse comprato una società spagnola invece di Telecom Italia, avrebbe due anni di tempo per lanciare un’Offerta sul mercato. «In Spagna l’accertamento del controllo viene fatto ex post – spiega Arturo Albano, ad della società specializzata nella corporate governance Talete guardando al potere di controllo sull’assemblea e alla capacità di nominare il cda che il neo azionista ha nei due anni successivi all’acquisto del controllo di fatto. Se appare evidente che esercita un potere di controllo, viene obbligato a promuovere l’Opa totalitaria ». Tuttavia secondo l’ad di Talete, questa riforma si presta a creare più dubbi di quelli che invece vorrebbe risolvere. « L’accertamento come si vorrebbe fare in Italia lascia troppi margini di discrezionalità e crea non poche incertezze – spiega Albano – Per fare un esempio concreto, sarebbe interessante capire cosa potrebbe succedere in società come Prysmian, dove un socio al 6,2% del capitale può nominare la maggioranza cda. Se Tamburi vendesse la propria quota, sarebbe paradossale sostenere che c’è un controllo di fatto e si deve promuovere un’Opa». Altri fanno notare come due anni di tempo siano già un periodo lungo che è destinato a dilatarsi in attesa della pronuncia della Consob e dei vari ricorsi. Per decidere se Pirelli via Olimpia consolidava – e quindi in un certo senso controllava – Telecom, ci sono voluti tre anni. «Concordo in principio sull’opportunità di tener conto del controllo di fatto, specie quando questo sia esercitato con ricorso a scatole cinesi. Ma siamo poi certi che dalla nuova disciplina discenda una maggior protezione degli interessi del mercato e degli azionisti di minoranza? – osserva Gianmatteo Nunziante dello studio Nunziante Magrone – Presumibilmente, infatti, la verifica verrà effettuata ex post da Consob, secondo criteri che lasceranno spazi all’inter-pretazione, e quindi all’impugnabilità dei provvedimenti. Il tutto a discapito della certezza del diritto, della concreta contendibilità delle società e, in definitiva, degli azionisti di minoranza (che invece si vorrebbe proteggere). A suo tempo, nella vicenda Sai-Fondiaria, Consob accertò la sussistenza dei presupposti per l’Opa obbligatoria con mesi di ritardo, quando i buoi erano già scappati e un’Offerta non poteva essere più promossa. Allora si doveva verificare solo se c’era stato il superamento della soglia del 30%. Non vorrei che introducendo la nozione di controllo di fatto frettolosamente e senza la dovuta ponderazione si finisca per far sì che l’anomalia determinatasi allora diventi sempre meno l’eccezione: e che in definitiva a pagarne le conseguenze, oggi come allora, s
iano proprio gli azionisti di minoranza». LE ALTRE SOCIETÀ DI PIAZZA AFFARI A RISCHIO Oltre al caso Telecom, che ispira la mozione Matteoli-Mucchetti, la nuova legge farà sentire i suoi effetti anche su Lauro61-Camfin-Pirelli e Mediobanca – Generali. Lauro 61 (veicolo di cui Tronchetti e soci hanno il 40%, Clessidra il 30% e Intesa e Unicredit le restanti quote) è una holding che non è controllata da nessuno dei suoi quattro azionisti, ma che a sua volta esprime il controllo della Pirelli. Pertanto in futuro il gruppo della Bicocca dovrebbe riformare la sua governance in modo da aprire ancora di più il capitale alle minoranze. Un operazione delicata, dato che nel capitale del gruppo della Bicocca c’è anche la famiglia Malacalza con il 7% delle azioni, che è una minoranza scomoda per il presidente e ad della Bicocca. Oppure Camfin, come già successo in passato ai tempi della Olimpia-Telecom, per aggirare l’ostacolo potrebbe aumentare significativamente il numero degli indipendenti nel consiglio. Il problema si presenta anche per la quota di Mediobanca in Generali, che peraltro ha già annunciato che scenderà dal 13 al 10% del capitale del colosso assicurativo. Solo che anche quando Mediobanca scendesse al 10% del Leone di Trieste, resterebbe di gran lunga l’azionista di maggior peso, e ammesso che abbia l’interesse di vendere la sua partecipazione in blocco, difficilmente potrebbe farlo perché il futuro compratore rischierebbe di dover lanciare un’Opa. Morale: Mediobanca potrebbe essere costretta a ridurre sempre più il suo peso in Generali e a farlo collocando titoli esclusivamente sul mercato. Lo stesso principio si può applicare alle fondazioni bancarie, che da anni governano su istituti come Intesa Sanpaolo, Unicredit e Mps e hanno continuato a farlo anche quando le loro quote si sono molto diluite. Solo che, fa notare qualche banchiere, è difficile stabilire un collegamento diretto tra alcuni vertici di spicco delle banche e gli enti che li hanno nominati, inoltre è anche difficile ipotizzare che le fondazioni vendano in blocco le loro quote ad altri soggetti terzi, che a quel punto sarebbero costrettati a lanciare un’Offerta totalitaria. Infine anche il ruolo della Fiat in RcsMediagroup verrà tenuto sotto stretto controllo, perché quando il gruppo presieduto da John Elkann ha rafforzato la sua partecipazione nella società editoriale esisteva ancora un patto di sindacato molto fitto. Ma ora che l’accordo è stato sciolto e che soci come Mediobanca (14%) cederanno le loro azioni, il peso che la Fiat eserciterà in assemblea verrà guardato con grande interesse. Un’immagine della Borsa di Milano: con la nuova normativa oggetto di un ordine del giorno del Senato recepito, dopo alcune iniziali incertezze, dal governo, si rende possibile e spesso obbligatorio lanciare un’Opa anche se si possiede meno del 30%