di Andrea Di Biase 

Se oggi si celebra la fine dei patti di sindacato e il tramonto del capitalismo di relazione all’italiana non è solo perché, nel nuovo scenario dei mercati, è diventato poco conveniente per le aziende (siano queste banche, assicurazioni o imprese industriali) tenere congelati capitali in partecipazioni finanziarie poco redditizie.

Lo era anche negli anni scorsi e lo è diventato ancor di più dopo lo scoppio della crisi finanziaria nell’autunno 2008. Eppure fino a pochi mesi fa nessuno si era mosso per sciogliere quell’intreccio di partecipazioni incrociate, congelate in accordi di blocco o veicoli societari, lasciato in eredità dal fondatore diMediobanca Enrico Cuccia e dagli altri protagonisti di quella stagione, come l’ex presidente delle Generali, Antoine Bernheim. Anzi, dopo la morte dello gnomo di Via Filodrammatici, nel giugno del 2000, sebbene la crescente internazionalizzazione dei mercati dei capitali avesse reso questa forma di controllo societario già allora obsoleta, il numero delle principali società quotate a Piazza Affari governate da un patto era addirittura aumentato, riducendosi leggermente dopo il 2007, ma solo come conseguenza del risiko bancario che aveva fatto sparire dal listino alcuni istituti fino ad allora controllati da gruppi di azionisti legati tra loro da questo tipo di accordi (l’acquisizione di Antonveneta da parte di Abn Amro, quella di Bnl da parte di Bnp, la fusione traIntesa e Sanpaolo e quella tra Unicredit e Capitalia), ma rimanendo pressoché stabile fino a pochi mesi fa.
Non solo. Negli anni successivi il 2003, l’anno dell’estromissione di Vincenzo Maranghi dalla guida diMediobanca, le società che facevano parte della cosiddetta Galassia del Nord hanno visto addirittura aumentare il numero dei partecipanti ai rispettivi patti e conseguentemente anche il capitale vincolato agli stessi. È stato così per Rcs, dove il peso del patto, per via degli ingressi di Diego Della Valle, di Francesco Merloni, della Capitalia di Cesare Geronzi e dellaFondiaria-Sai di Salvatore Ligresti, è cresciuto dal 46% fino al 63,5%, ma anche per la stessa Mediobanca, dove l’ingresso della cordata francese capitanata da Vincent Bolloré ha fatto lievitare il peso del sindacato di blocco dal 50 a quasi il 60% del capitale.

Ma a cosa è dovuta l’improvvisa inversione di tendenza registrata negli ultimi mesi? Spiegare lo scioglimento dei patti di Gemina e di Rcs, l’imminente «liberi tutti» tra gli azionisti della Pirelli e tra i soci di Telco-Telecom e lo snellimento al 30% del patto Mediobanca solo con il nuovo scenario dei mercati e con un contesto regolamentare, che incentiva banche e assicurazioni a liberare capitali cedendo partecipazioni immobilizzate, rischia di essere fuorviante.

È inutile girarci attorno.

L’esito dello scontro di potere tra le varie anime del vecchio salotto buono, culminato con il cambio di proprietà di FonSai, fino a ieri una delle roccaforti di quel sistema di patti e partecipazioni incrociate, ha consentito di voltare pagina. Se oggi si celebra la fine dei patti di sindacato è dunque anche perché Alberto Nagel e Federico Ghizzoni, con il contributo rilevante del presidente della Consob, Giuseppe Vegas, sono riusciti a dare un nuovo assetto di controllo al gruppoFondiaria-Sai, estromettendo Salvatore Ligresti e i suoi figli dalla proprietà e dalla gestione, e traghettando la compagnia nell’alveo del gruppo Unipol guidato da Carlo Cimbri. Forse, come molti sostengono, il matrimonio tra FonSai e il gruppo bolognese, che si è celebrato venerdì 25 ottobre con il via libera delle assemblee straordinarie, potrà anche non essere, da un punto di vista industriale, la migliore delle unioni possibili (toccherà a Cimbri e ai suoi collaboratori dimostrare che non è così). Tuttavia, se nell’autunno del 2010 fosse andato in porto il tentativo di Groupama, appoggiato da Bolloré e ben visto da Geronzi, di dare ossigeno ai Ligresti, ipotecando allo stesso tempo il controllo diFonSai, difficilmente oggi il management di Mediobanca sarebbe stato in grado di promuovere quel cambiamento negli assetti proprietari di alcune delle principali aziende italiane, e saremmo invece ancora qua a discutere se le Generali, che nel frattempo sotto la guida del nuovo ad Mario Greco hanno deciso di concentrarsi esclusivamente sulle polizze rinunciando alle partite di sistema, debbano investire o meno nelle banche in difficoltà o nella costruzione del ponte sullo stretto di Messina. Se allora la Consob non avesse bloccato il tentativo di Groupama di mettere sotto tutela FonSai, nell’azionariato di Mediobanca si sarebbero create le condizioni per la formazione di una coalizione di soci capace di orientare in un altro senso le scelte strategiche del management, se non addirittura di procedere a un suo ricambio.

La defenestrazione da Fondiaria-Sai dei Ligresti – sarebbe poco serio non riconoscerlo – è stata raggiunta anche facendo ricorso a colpi poco ortodossi, che hanno indignato i puristi del mercato e quelli che del mercato si dicono devoti solo quando conviene loro. Che nei piani di Mediobanca e Unicredit, l’ingegnere di Paternò e i suoi figli avrebbero dovuto farsi da parte, con le buone o con le cattive, è stato evidente fin da subito.

Almeno su questo non si può dare torto a Giulia Ligresti, che in un memoriale consegnato alla Procura di Torino aveva teorizzato un complotto delle banche per estromettere la famiglia dalla guida della compagnia. Magari questo complotto non c’è stato, ma di sicuro, quando la famiglia, dopo aver dato l’ok all’operazione Unipolha iniziato a mettersi di traverso, le banche hanno esercitato pressioni (arrivando al punto di minacciare l’escussione del pegno sulle azioni Premafin) per chiudere l’operazione con i bolognesi. Se in quella fase sono stati commessi dei reati sarà la magistratura a stabilirlo. Ci sono ben due Procure, quella di Torino, che ha appena concluso le indagini, e quella di Milano, che dovrebbe avviarsi a farlo, che stanno approfondendo l’intera vicenda. Sul punto l’ad di Unipol, Carlo Cimbri, nel corso dell’assemblea straordinaria di FonSai di venerdì 25 ottobre ha espresso piena fiducia nel lavoro della magistratura, sottolineando che dalla lettura della pubblicazione delle carte del procedimento penale chi più ha da perderci sono proprio i Ligresti. «La società sarà parte attiva del processo», ha spiegato Cimbri, «e dalla lettura integrale degli atti del processo penale di cui disporremo, potremo avere uno spaccato interessante del mondo che circolava attorno ai Ligresti, attorno agli amministratori e agli interessi oscuri, opachi e imprevedibili della vicenda, capiremo chi rappresentava chi e si potrà fare luce». Insomma, come è emerso anche dalla attenta ricostruzione fatta da Fabrizio Massaro sul Corriere della Sera di giovedì 24 ottobre, la vicenda FonSai può essere inquadrata come l’ultima battaglia di una lunga guerra, combattuta attorno a Mediobanca e alle Generali negli ultimi dieci anni, e il cui esito, certo non scontato, ha creato le condizioni per consentire lo scioglimento di quegli antichi legami azionari.

Ma se questa vicenda rappresenta ormai il passato, la vera incognita riguarda il futuro delle grandi aziende quotate italiane dopo la fine dei patti di sindacato. Nonostante i limiti dimostrati negli anni recenti, infatti, le coalizioni tra azionisti, cementate in accordi di blocco sul capitale, hanno assicurato stabilità negli assetti proprietari. Talvolta questa stabilità, come ha dimostrato la vicenda Rcs, si è trasformata in immobilismo e in litigiosità tra i soggetti aderenti al patto, ma più in generale non si vede un modello di governance alternativo capace di promuovere una gestione efficiente e allo stesso tempo di impedire che banche, assicurazioni e grandi imprese quotate finiscano, ancora una volta, preda di grandi gruppi.

Che la public company pura non possa essere un modello, almeno per le grandi banche, è stato il presidente di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli, a sottolinearlo recentemente. Parlando del ruolo delle fondazioni nel capitale delle banche, il professore bresciano ne ha sottolineato l’indispensabilità, facendo presente che sul mercato finanziario italiano non ci sono altri soggetti istituzionali, con logiche di investimento di lungo periodo, capaci di assicurare alle banche la necessaria stabilità e di accompagnarle, così come fatto dalle fondazioni negli ultimi anni, nel processo di aggregazione e rafforzamento patrimoniale.

Una riduzione del peso delle fondazioni nel capitale delle banche, secondo Bazoli, potrebbe dunque avvenire solo se «si realizzasse l’auspicato incremento di peso nel nostro mercato finanziario degli investitori istituzionali».

Ma che dopo i patti non si vede all’orizzonte alcun modello alternativo in grado di imporsi, lo ha ricordato anche l’imprenditore franco-tunisino Tarak Ben Ammar. Secondo quest’ultimo, in particolare, il fatto che in Italia, a differenza della Francia, non faccia sistema a supporto e tutela delle proprie aziende strategiche, rende le nostre imprese facile preda dei gruppi esteri. Anche se, ha ricordato Ben Ammar, che siede nel consiglio di amministrazione di Mediobanca da quasi dieci anni, in rappresentanza dei soci del gruppo C, alcune inefficienze del Paese, a partire dalla farraginosità del sistema giudiziario, tengono lontani, almeno per il momento, eventuali capitali esteri.

I prossimi mesi saranno dunque importanti per capire quale assetto prenderà il capitalismo finanziario italiano. Paradossalmente il patto di Mediobanca, sceso al 30%, ma con Unicredit stabile all’8,7%, rappresenta una garanzia di stabilità per la banca d’affari e indirettamente per le Generali, di cui Piazzetta Cuccia sono tuttora il primo azionista con il 13,2%, pur nell’ambito di una coalizione informale con alcuni gruppi imprenditori privati come De Agostini, Caltagirone e Del Vecchio. (riproduzione riservata)