Meno titoli di Stato e azioni, più libretti di risparmio e fondi comuni. Con il mattone che piace sempre meno. Sono le scelte di investimento degli italiani, secondo l’indagine dell’Acri realizzata con l’Ipsos, presentata come di consueto alla vigilia della Giornata Mondiale del Risparmio (in programma per oggi) e arrivata alla 13esima edizione.
Nell’ultimo anno, in particolare, è cresciuto il numero di possessori di fondi comuni di investimento (12%) e di libretti risparmio (23%), mentre sono risultati in diminuzione i possessori di azioni (dall’8 al 7%) e di titoli di Stato (dal 9 al 7%), dopo il ridimensionamento dei rendimenti. La quota degli italiani intervistati che dichiarano di aver sottoscritto assicurazioni sulla vita o fondi pensione è stata invece del 19% ed è stabile rispetto al 2012, come quella dei possessori di certificati di deposito e obbligazioni (10%). Resta stabilmente elevata la preferenza per la liquidità, che riguarda due italiani su tre. Mentre arretra ancora pesantemente il mattone: se nel 2006 la quota di quanti vedevano nell’immobiliare l’investimento ideale era del 70% e nel 2010 del 54%, nel 2011 è scesa al 43%, nel 2012 al 35% fino all’attuale 29%: il dato di gran lunga più basso dal 2001.
Va inoltre segnalato che risparmiare appare ancora difficile. Negli ultimi 12 mesi gli italiani che sono riusciti a mettere qualcosa da parte sono stati il 29%, in leggero aumento rispetto al 2012 (erano il 28%). Un lieve segnale di inversione di tendenza, visto tra l’altro che a prevalere è il pessimismo, perché gli italiani non pensano che la situazione possa cambiare in breve tempo: poco meno di tre su quattro ritengono che per tornare ai livelli pre-crisi ci vorranno ancora 3-4 anni ovvero che bisognerà aspettare almeno il 2016-2017. Il 58% degli intervistati si dichiara poi insoddisfatto della propria situazione economica (il 22% per nulla soddisfatto e il 36% poco). Una percentuale molto peggiorata rispetto al 2001, quando gli insoddisfatti erano il 35%. Numeri che lasciano intendere quanto la crisi abbia segnato gli italiani, che toccano sempre più con mano situazioni di difficoltà, come la perdita del lavoro o stipendi più bassi. Tanto che più di una famiglia su quattro è stata colpita direttamente dalla crisi perché i problemi hanno riguardato un membro del nucleo familiare. Percentuale che lo scorso anno era pari al 26%.
C’è poi un altro dato che appare in controtendenza rispetto al passato e riguarda il ruolo del risparmio ai fini della ripresa economica. La crisi in qualche modo ha fatto emergere l’importanza del risparmio e del suo ancoraggio all’economia reale. Per l’82% degli intervistati il risparmio dovrebbe essere legato alla produzione, alle aziende e al lavoro. A pensarla così nel 2009 era soltanto il 60% degli intervistati e il 29% riteneva che il risparmio dovesse essere associato agli investimenti finanziari (percentuale scesa oggi al 14). Per sei italiani su dieci il risparmio è chiamato insomma a svolgere un ruolo fondamentale per il Paese e dovrebbe essere utilizzato prima di tutto per dare la possibilità alle imprese di assumere nuovi lavoratori (per il 61% degli intervistati) prima ancora che per consentire ai cittadini di avere prestiti e mutui (39%).
Per quanto riguarda infine l’Europa e l’euro, gli italiani sono ottimisti sul futuro dell’economia continentale, anche se l’Italia non sembra in grado di partecipare in modo adeguato. Ciò contribuisce «a far sentire l’Europa sempre più lontana, né madre né matrigna, ma una vecchia zia ricca su cui però non si può fare affidamento», osservano da Ipsos. Riguardo all’euro, le critiche non sembrano riguardare solo il passato e il presente, ma crescono anche i dubbi sulle prospettive future. Quasi tre su quattro ne sono insoddisfatti della moneta unica (il 74%) un dato in crescita rispetto al già alto 69% del 2012. Molti dubitano sulla sua utilità nel lungo periodo. I convinti che essere ancora nell’euro tra 20 anni sarebbe un vantaggio sono scesi infatti dal 57% al 47%, mentre il 39% pensa che far parte nel lungo periodo dell’euro potrebbe essere addirittura uno svantaggio, percentuale che l’anno scorso si fermava al 28%. (riproduzione riservata)